Cornelio Tacito
Nerone
L'arbitrio sul trono
a cura di Carlo Luigi Torchio

 


 

INDICE

 

Tacito o la concisione nella concisione

Da Claudio a Nerone: una sorda lotta per il potere

Una moglie per l’imperatore Claudio (49 d.C.)
I potenti ministri a consiglio
Agrippina seduce suo zio, l’imperatore Claudio
Il senato romano autorizza le nozze di Claudio (49 d.C.)
Seneca maestro di Nerone (49 d.C.)
Le nozze di Nerone con Ottavia
Agrippina fa avvelenare Claudio (54 d.C.)
False dimostrazioni di affetto di Agrippina
Nerone acclamato imperatore (54 d.C.)
Nerone sul trono. Vendette di Agrippina
I funerali di Claudio
Nerone fa assassinare Britannico (55 d.C.)
Bravate e scorribande notturne di Nerone (56 d.C.)

Poppea diventa l’amante di Nerone
L’assassinio di Agrippina (59 d.C.)
Passione di Nerone per le gare e le scene
Muore Burro (62 d.C.). Seneca si ritira
Ascesa di Tigellino (62 d.C.)
Nerone ripudia la moglie
Poppea istiga Nerone a uccidere Ottavia
Ottavia accusata di adulterio
Ottavia relegata a Ventotene
Una vittima innocente (62 d.C.)

La figlia di Nerone e di Poppea (63 d.C.)
L’incendio di Roma (64 d.C.)
La Domus aurea
La persecuzione contro i cristiani (64 d.C.)
Spoliazione delle province d’Italia
La congiura di Pisone (65 d.C.)
Scoperta della congiura
La morte di Seneca (65 d.C.)

La morte di Lucano, nipote di Seneca
La fine di Poppea (65 d.C.)
La morte di Petronio (66 d.C.)

La fine di Nerone secondo Svetonio

  


 

PASSI SCELTI

 

TACITO O LA CONCISIONE NELLA CONCISIONE

 

Lo stile di Tacito è inimitabile, non solo perché non c’è lingua stringata come il latino, ma perché la sua prosa, anziché mirare ad effetti retorici, tende a diventare scabra ed essenziale, quasi per adeguarsi alla materia che è in prevalenza quella dei tempi bui. (La materia meno «orrida», lo storico la riservava per gli anni della sua vecchiaia: quella che in realtà non scrisse mai). Da ciò la difficoltà di rendere uno stile che sfrutta all’estremo le risorse del latino. è chiaro che una lingua moderna può difficilmente riprendere i caratteri della prosa tacitiana (come la brevitas, come la variatio), senza correre il rischio di cadere nell’oscurità o in forme involute.

Se tradurre è difficile sempre, rendere Tacito e riprodurne fedelmente connotazioni lessicali e sfumature, è quasi impossibile. Anzitutto perché il latino, come si diceva, è già di per sé una lingua lapidaria, e poi perché lo scrittore ne sfrutta tutte le risorse, sino a creare un tipo di scrittura unico (com’è unico in realtà lo stile di ogni capolavoro).

È uno stile diverso da quello di ogni altro prosatore latino, con espressioni estremamente sintetiche, pregnanti (e perciò difficili da rendere con pari forza e stringatezza), con finissime ed icastiche note, con una brevità sentenziosa, che apre lampi di indagine psicologica e di costume. Quanti taglienti ritratti in queste pagine degli Annali! Quanti ritratti incisivi, quando non graffianti! Quante sentenze, in cui si concentra mirabilmente il frutto di una lunga riflessione sugli usi e costumi degli uomini, sui loro vizi, sulla vita e sul mondo!

Tacito può anche apparire compassato, freddo, oggettivo; poi all’improvviso ecco, mirabilmente laconica, un’osservazione che coglie una mentalità, fissa in modo icastico un carattere, bolla un modo di agire. O esce con una «morale» che denuncia la presenza di una vigile coscienza etica.

Ed è abilissimo nel rappresentare le zone d’ombra, è un maestro nell’accennare, lasciando intendere, nel riferire voci e dicerie o anche versioni di un fatto che non dà per certe, ma che mette avanti, insinuando o lasciando trapelare una possibile tesi o una responsabilità. Non dà nulla per scontato, ma sfrutta la brevitas, in cui è maestro, per dire con sobria efficacia quello che non si dà come sicuro, ma non sembra lontano dal vero (o dalla trama che lui è venuto tessendo).

Storico accurato, certo; ma anche obbiettivo? è uno che narra (stando ad una sua dichiarazione programmatica) «sine ira et studio» (senza rancori e senza preferenze)? O non è piuttosto un grande scrittore dotato di una penetrante capacità psicologica, ma pure ammaliziato e scaltrito in tutte le arti del dire? Un discepolo di Quintiliano (il primo professore di eloquenza, a Roma, stipendiato dallo stato) che abbandona il ciceronianismo del maestro per approdare a una maniera opposta alla rotunditas del principe degli oratori romani, foggiando un suo stile unico e incomparabile.

Uno stile sorprendentemente originale dunque, che ci rivela le risorse incredibili di una lingua, dal momento che nelle sue mani il latino si piega a usi e costrutti insoliti o rari, ben lontano dall’equilibrio compositivo e sintattico della lingua «aurea», ma capace di mettere in luce una duttilità e una pieghevolezza insospettabili nell’idioma di un popolo poco portato alla speculazione e molto alla vita attiva.

Molte pagine di Tacito sono un racconto serrato, un capolavoro di finezza e di analisi, in una prosa che porta all’estremo le risorse della lingua. Brevitas del latino, brevitas del prosatore: un connubio che, superata l’iniziale difficoltà esegetica, conquista per la sua singolarità e potenza. E se Tacito può anche parere distaccato, certo non è né freddo né insensibile. Basta leggere come lo storico riassuma e commenti l’infelice sorte di Ottavia (Annali, XIV, 63) per capire che gran cuore palpita sotto l’apparente oggettività dello scrittore.

Non ci siamo dunque cimentati nello sforzo di riprodurre un fraseggiare inimitabile, ma abbiamo cercato di tradurre fedelmente il pensiero dell’autore con i sottintesi di cui la scrittura di Tacito abbonda. Ed abbiamo cercato di ricostruire una storia drammatica, quando non tragica, limitandoci ad integrare le vicende con collegamenti essenziali (e con note in prevalenza esplicative, per spiegare le cose meno chiare o troppo lontane dagli usi e costumi nostri).

È anche questo un modo per diffondere la conoscenza dei classici latini, nella speranza che una traduzione moderna, ma fedele al testo, stimoli a leggere questi scrittori nella lingua originale. Anche Svetonio traccia un ritratto del giovane sovrano, ma la sua biografia neroniana, con tante notiziole che non di rado acquistano il sapore del pettegolezzo, dà un’immagine un po’ burattinesca del personaggio. Attorno a Nerone, invece, Tacito costruisce (o ricostruisce) una storia di sopraffazioni e arbìtri. Ne emerge la figura sinistra di un giovane tiranno cresciuto in un ambiente di sordide rivalità, dove la libidine del potere è l’elemento imperante nella vita del Palazzo, e dove naufraga definitivamente la gloria del principato di Augusto e il prestigio della casa Giulio-Claudia.

E nella vicenda di Nerone molte altre storie si intrecciano, diverse ed esemplari. Da quella di Britannico e Ottavia, gli infelici figli dell’imperatore Claudio, votati entrambi ad un precoce destino di morte, a quella di Agrippina, smaniosa di potere tanto da anelare al governo di Roma e finire vittima delle sue trame e dei suoi delitti, perché fatta uccidere da quello stesso figlio che aveva voluto a tutti i costi sul trono. Da quella dello scrittore e filosofo Seneca, che chiamato a corte tra i precettori del giovane principe (ma solo come maestro di retorica, in verità), vi spende gli anni migliori e ne esce segnato per sempre, a quella del promettente suo nipote Lucano o a quella di Petronio, il più geniale scrittore dell’epoca. E così per altre numerosissime persone, variamente compromesse, come Poppea (amante e poi moglie di Nerone), Otone (futuro imperatore, anche se per breve tempo), Tigellino (il perfido consigliere di Nerone). Pagine che si leggono come capitoli di un romanzo. Vicende che sembrano uscite dalla penna di un romanziere e sono storia.

 NOTA AL TESTO

Per gli Annali abbiamo seguito l’edizione teubneriana: Cornelii Taciti libri qui supersunt, Ab excessu divi Augusti, a cura di E. Koestermann, Leipzig, 19713.

  

DA CLAUDIO A NERONE: UNA SORDA LOTTA PER IL POTERE

Messalina, la seconda moglie dell’imperatore Claudio, non era solo corrotta, ma pronta a soppiantare il marito nel governo dello stato con una congiura di palazzo. Il principe era stato costretto (e forse istigato dai suoi fedelissimi) a liberarsi di lei facendola uccidere. Con la sua morte comincia la gara fra le nobildonne della corte (tra cui Agrippina), che rivaleggiano, sperando ognuna di essere prescelta come sposa dell’imperatore.

Claudio, precocemente invecchiato, diventa uno strumento nelle mani dei potenti liberti (gli ex schiavi Narcisso, Callisto e Pallante), di cui si è servito in passato per governare lo stato senza l’interessata collaborazione di cavalieri e nobili romani. Dà ascolto a tutti, ma non saprebbe decidersi, senza l’abile opera di seduzione di Agrippina che, per sete di potere, non esita a diventare l’amante dello zio in attesa di esserne la moglie quando un decreto del senato romano consentirà le nozze tra zio e nipote che a Roma, fino ad allora, erano state considerate «incestuose».

Una moglie per l’imperatore Claudio (49 d.C.)

La morte di Messalina, aveva messo in subbuglio il palazzo imperiale perché si era accesa tra i liberti una sorda lotta su chi doveva scegliere la moglie per Claudio, che non sopportava la vita da vedovo e alle pretese delle sue mogli era sempre stato sottomesso. E le donne erano divorate da un’ambizione non meno sfrenata: ognuna faceva valere la propria nobiltà, bellezza, ricchezza, e sfoggiava le qualità degne di un matrimonio così importante.

Ma si era indecisi soprattutto fra Lollia Paolina, figlia dell’ex console Marco Lellio e Giulia Agrippina, figlia di Germanico. Quest’ultima era appoggiata da Pallante, l’altra da Callisto; Narcisso invece era a favore di Elia Petina, della famiglia dei Tuberoni.

Ognuno cercava di convincere Claudio e lui, che ora propendeva per questa ora per quella, secondo ciò che si sentiva dire, convocò i liberti in pieno disaccordo, ordinando di esprimere il loro parere e di aggiungervi le ragioni.

(Annali, XII, 1)

I potenti ministri a consiglio

Narcisso portava il discorso sul vecchio matrimonio con Petina, sulla figlia che avevano in comune (Antonia infatti era nata da lei): se Claudio tornava con una moglie che già conosceva, nella sua casa non ci sarebbero state novità, e lei non avrebbe assolutamente visto con avversione di matrigna Britannico e Ottavia, parenti prossimi dei figli suoi che aveva carissimi.

Callisto sosteneva che la donna era screditata dal lungo divorzio e che, se fosse stata di nuovo scelta, si sarebbe per questo stesso fatto insuperbita; e diceva che era molto più saggio proporre Lollia: lei, che non aveva messo al mondo figli suoi, sarebbe stata libera da gelosie e come una madre per i figliastri.

Quanto a Pallante esaltava in Agrippina soprattutto il fatto che avrebbe portato con sé Nerone, nipote di Germanico, veramente degno d’essere principe. Era di nobile stirpe e avrebbe stabilito un legame fra i discendenti della famiglia Giulia e i discendenti della famiglia Claudia, evitando che quella donna, di cui era certa la fecondità e che si trovava nel fiore degli anni, trasferisse in un’altra casata lo splendore dei Cesari.

(Annali, XII, 2)

Agrippina seduce suo zio, l’imperatore Claudio

A prevalere furono queste ragioni, favorite anche dall’opera di seduzione di Agrippina che, a forza di venire continuamente da Claudio con il pretesto della parentela, raggirò lo zio tanto da venire preferita alle altre e da esercitare il potere d’una moglie, quando ancora non lo era.

Infatti, appena fu sicura del suo matrimonio, cominciò ad architettare progetti più ambiziosi e a preparare le nozze di Domizio Nerone (il figlio che lei aveva avuto da Cneo Enobarbo) con Ottavia, la figlia di Claudio. Il che non si poteva realizzare senza commettere una grave scorrettezza, perché Ottavia era stata promessa in matrimonio a Lucio Silano. E quel giovane, già per altri motivi famoso, Claudio lo aveva additato alle simpatie del popolo conferendogli le insegne trionfali e dando un grandioso spettacolo di gladiatori. Ma niente sembrava troppo difficile da realizzare con un imperatore che in cuor suo non nutriva preferenze o avversioni che non gli fossero suggerite ed imposte.

(Annali, XII, 3)

Il senato romano autorizza le nozze di Claudio (49 d.C.)

Sotto il consolato di Caio Pompeo e di Quinto Veranio, il matrimonio tra Claudio ed Agrippina, stabilito di comune accordo, trovava conferma ora nelle voci che circolavano ora nella loro relazione illecita. Ma non c’erano precedenti di una nipote andata sposa ad uno zio, ed essi non osavano ancora celebrare delle nozze solenni. Anzi si temeva di commettere un incesto e che questo diventasse causa di pubbliche calamità, se non gli si fosse dato importanza.

E le esitazioni dapprima non mancarono, finché non si assunse l’impegno di portare a buon fine la faccenda il senatore Vitellio, grazie ai maneggi che gli erano propri.

Costui domandò all’imperatore se si sarebbe piegato alla volontà del popolo e all’autorità del senato. Alla sua risposta di non essere che un cittadino tra gli altri, e di non potersi opporre a un desiderio unanime, lo invitò ad attendere nella reggia. Vitellio, entrato in senato, chiese facoltà di parlare per primo, affermando che si trattava di una questione di stato della massima importanza. Esordì dicendo che gli impegni di un sovrano per il governo del mondo erano gravosissimi, che gli serviva un aiuto in modo da essere libero dai fastidi domestici e provvedere al bene di tutti. Inoltre quale migliore sollievo, per l’animo di un uomo investito delle funzioni di censore, di una moglie che gli fosse compagna nella buona e nella cattiva sorte, alla quale potesse confidare i suoi pensieri più segreti e affidare i figli ancora piccoli? Tanto più per uno come lui, non abituato a una vita sregolata e ai piaceri, ma rispettoso delle leggi fin dalla sua prima giovinezza.

Fatta questa premessa con parole accattivanti, che gli attirarono un vivo consenso da parte dei senatori, riprese il suo discorso. Se tutti raccomandavano all’imperatore di sposarsi, la scelta doveva cadere su una donna esemplare per nobiltà, figli e onestà di costumi. E non c’era molto da cercare: Agrippina era la prima per lo splendore del casato, aveva dato prova di fecondità e armonizzavano con il resto le sue buone doti.

La provvidenza divina - fatto davvero straordinario - aveva voluto l’unione di quella vedova con un imperatore che aveva conosciuto soltanto mogli legittime. Quante spose invece erano state strappate alle loro famiglie per il capriccio dei Cesari! Cose che avevano saputo dai loro padri, cose che avevano visto con i propri occhi, cose ben lontane dall’attuale morigeratezza!

Anzi occorreva stabilire un precedente in base al quale un imperatore dovesse prendere moglie. Infatti da noi lo sposarsi con le figlie dei fratelli costituiva una novità, ma per gli altri popoli era normale, e non c’era legge che lo proibisse. Anche il matrimonio fra cugini, per tanto tempo sconosciuto, era diventato più frequente con il passare degli anni. Gli usi andavano adattati alle esigenze dei tempi, e anche questa consuetudine sarebbe entrata ben presto tra le pratiche d’uso corrente.

Non mancarono alcuni senatori che si precipitarono fuori affermando che, se l’imperatore ancora non si decideva a questo matrimonio, ve lo avrebbero costretto con la forza. Si radunò una folla di ogni ceto e questa cominciò a gridare che anche il popolo invocava quelle nozze. E Claudio senza aspettare oltre, venne nel foro, si offrì alle persone che si felicitavano e, entrato in senato, volle un decreto che sancisse la legittimità delle nozze fra zii e figlie di fratelli anche per il futuro.

Ma si trovò uno solo che aspirava a un matrimonio di questo genere, e cioè Alledio Severo, un cavaliere romano che vi si era indotto, a quanto dicevano, per compiacere Agrippina.

Da quel momento il cambiamento nella vita politica fu radicale e tutto prese ad obbedire ad una donna che non agiva come Messalina e non si faceva gioco della potenza di Roma per capriccio. Il suo era un giogo pesante, e quasi imposto da mano maschile: in pubblico era austera, e più spesso arrogante; nessuna dissolutezza nella vita privata, se non in funzione del potere. La sua avidità sfrenata di ricchezze prendeva a pretesto la necessità di procurare i mezzi finanziari all’impero.

(Annali, XII, 5-7)

Seneca maestro di Nerone (49 d.C.)

Ma Agrippina non volendo farsi conoscere grazie soltanto alle sue cattive azioni, ottenne per Anneo Seneca il richiamo dall’esilio e al tempo stesso la carica di pretore, convinta che ciò sarebbe stato gradito a tutti, data la fama che gli avevano meritato le sue opere. Voleva pure che Nerone, ancora ragazzo, crescesse alla scuola di un tale maestro e che entrambi potessero valersi dei suoi consigli nella speranza di conquistare il potere. Perché si pensava che Seneca sarebbe stato fedele ad Agrippina per il ricordo del beneficio ricevuto, e ostile a Claudio per il rancore dell’ingiustizia che aveva subìto.

(Annali, XII, 8)

Le nozze di Nerone con Ottavia

Nerone aveva sedici anni (erano consoli Decimo Giunio e Quinto Aterio) quando prese in moglie Ottavia, la figlia di Claudio.

Perché potesse distinguersi con qualche nobile attività e acquistarsi fama di oratore, gli si fece difendere la causa degli abitanti di Ilio. E lui fu molto eloquente a spiegare che i Romani discendevano dai Troiani, che Enea era il capostipite della famiglia Giulia e ottenne, ricorrendo ad altre storie non molto lontane dalle leggende tanto sono antiche, che i cittadini di Ilio fossero esonerati dal pagamento di ogni imposta dovuta allo stato.

Grazie ancora al suo patrocinio, fu concesso un aiuto alla colonia di Bologna, distrutta da un incendio, con l’elargizione di dieci milioni di sesterzi.

(Annali, XII, 58)

[…]

Bravate e scorribande notturne di Nerone (56 d.C.)

Al tempo del consolato di Quinto Volusio e di Publio Scipione, con l’estero si viveva in pace, ma a Roma la dissolutezza era vergognosa.

Nerone, per nascondere la propria identità, si travestiva da schiavo, scorrazzava per le vie della città, nei bordelli e nelle bettole, e teneva al suo seguito degli uomini che saccheggiavano le merci in vendita e picchiavano i passanti. E lo facevano ai danni di gente così ignara che finì anche lui per buscarsi dei colpi e portarne i lividi sulla faccia.

In seguito, quando si venne a sapere che a fare queste scorribande era l’imperatore, si moltiplicarono gli atti di violenza ai danni di persone distinte, uomini e donne. E certi individui, una volta consentiti questi eccessi, commettevano impunemente con le loro bande le stesse prepotenze sotto il nome di Nerone, e le notti a Roma trascorrevano come se la città fosse presa d’assalto.

E Giulio Montano (apparteneva alla classe senatoriale, ma non era ancora entrato in carica) per caso nel buio della notte era venuto alle mani con l’imperatore. Era stato Nerone ad aggredirlo, lui lo aveva duramente respinto e poi, dopo averlo riconosciuto, gli aveva presentato le sue scuse, ma fu costretto a darsi la morte come se avesse osato rimproverarlo.

Nerone però diventò più cauto e di lì in avanti si circondò di soldati e per la maggior parte di gladiatori. E costoro dovevano lasciare che da principio scoppiassero risse di poco conto e quasi dei diverbi tra privati cittadini: se le persone molestate reagivano più energicamente, intervenivano con le armi.

(Annali, XIII, 25)

Poppea diventa l’amante di Nerone

In quell’anno un episodio non meno scandaloso di scostumatezza segnò l’inizio di grandi mali per lo stato.

A Roma viveva una donna, Sabina Poppea, che era figlia di Tito Ollio ma aveva preso il nome dal nonno materno Poppeo Sabino, uomo di illustre memoria, in quanto ex console e famosissimo per aver ottenuto l’onore del trionfo. (Suo padre Ollio infatti, quando non aveva ancora ricoperto tutte le cariche, era stato rovinato dall’amicizia con Seiano).

Questa donna possedeva ogni altra dote, tranne l’onestà dei costumi. Infatti sua madre, che era stata la più bella donna del suo tempo, le aveva trasmesso in ugual modo fama e bellezza, e le ricchezze erano adeguate al prestigio della famiglia.

Discorreva amabilmente e aveva intelligenza vivace; ostentava moderazione ed era dissoluta. Usciva raramente in pubblico e per di più con il viso parzialmente coperto da un velo, per non appagare del tutto gli sguardi altrui, o perché ciò le conferiva del fascino.

Non si era mai curata della propria reputazione e non faceva differenza fra mariti ed amanti. Né si sentiva legata a qualche affetto suo o altrui: andava a capriccio dove vedeva un interesse.

Costei dunque, anche se era sposata con Rufrio Crispino (un cavaliere romano da cui aveva avuto un figlio), si lasciò sedurre dalla gioventù e dalla vita sfarzosa di Otone, e anche dal fatto che lo si riteneva amico intimo di Nerone. E all’adulterio seguì, poco dopo, il matrimonio.

Otone non faceva che lodare con Nerone la bellezza e il buon gusto della moglie, sia che l’amore lo avesse reso imprudente sia che volesse stimolarne il desiderio, perché, se avessero goduto i favori della stessa donna, anche quel legame lo avrebbe reso più potente.

Spesso lo si sentì ripetere, mentre si alzava da tavola dopo un pranzo a corte, che andava da lei, dalla donna che la fortuna gli aveva concesso, dalla nobiltà, dalla bellezza in persona: ciò che forma il desiderio di tutti e la gioia dei fortunati.

Grazie a queste e a simili provocazioni, l’attesa non fu lunga. Poppea fu invitata a corte e cominciò a diventare influente, prima con le moine e le scaltrezze, fingendo di non saper dominare la sua passione e di essere conquistata dalla bellezza di Nerone. Ben presto, quando ormai l’amore del principe si era fatto ardente, si fece superba. E, se la si voleva trattenere per più di una o due notti, ripeteva di essere una donna sposata, che non poteva perdere i suoi diritti di moglie. Sosteneva di essere legata ad Otone da un tenore di vita senza pari, che Otone era un gran signore d’animo e di modi, che in lui vedeva qualità degne delle più alte fortune. Nerone, invece, era stato l’amante di una serva, era attaccato alla sua relazione con Atte e dalla convivenza con una schiava non aveva ricavato niente che non fosse abbietto e volgare.

Otone venne allontanato dalla consueta intimità con Nerone, quindi dalla sua compagnia e dal suo seguito, e infine, per impedirgli di fare a Roma la parte del rivale, gli fu dato il governo della Lusitania. E rimase qui, fino allo scoppio della guerra civile, vivendo non secondo la cattiva reputazione che si era fatto prima, ma in modo onesto ed irreprensibile. Dissoluto nella vita privata, fu padrone di sé nell’esercizio del potere.

(Annali, XIII, 45-46)

L’assassinio di Agrippina (59 d.C.)

Sotto il consolato di Gaio Vipstano e di Caio Fontenio, Nerone non volle più rimandare l’assassinio della madre a cui pensava da tanto tempo.

Con l’esercizio del potere la sua audacia era cresciuta, e il suo amore per Poppea si era fatto di giorno in giorno più forte. E costei, non avendo speranza che Nerone la sposasse divorziando da Ottavia, finché Agrippina era viva, bersagliava il principe con continue accuse e a volte con parole pungenti, chiamandolo fanciullo minorenne, visto che dipendeva dagli ordini altrui e che era non solo senza potere, ma anche senza libertà.

Perché rimandare ancora il loro matrimonio? Evidentemente non gli garbavano la sua bellezza e i trionfi dei suoi antenati, o piuttosto la sua fecondità e la sincerità del suo animo. Forse si temeva che una moglie, se non altro, gli aprisse gli occhi sui torti fatti ai senatori, sulla collera del popolo contro la superbia e l’avidità di sua madre.

Ora, se Agrippina era disposta a sopportare solo una nuora nemica di suo figlio, la si restituisse a suo marito Otone e lei se ne sarebbe andata in capo al mondo dove avrebbe sentito parlare delle offese fatte all’imperatore, piuttosto che averle sempre sotto gli occhi e condividerne i pericoli.

Queste proteste ed altre non diverse facevano breccia nell’animo di Nerone, grazie alle lacrime ed alle moine dell’amante, e nessuno la contrastava, dal momento che tutti sospiravano di veder stroncata la potenza di sua madre. E nessuno avrebbe pensato che l’odio di un figlio sarebbe arrivato sino a fargli commettere un omicidio. […]

Di conseguenza Nerone evitava di incontrarsi da solo con Agrippina e, quando lei si recava nei giardini di Tusculo o in campagna ad Anzio, la incoraggiava a prendersi una vacanza. Infine sentì che gli era insopportabile, dovunque si trovasse, e decise di farla uccidere, limitandosi a riflettere se con il veleno o con un’arma o con qualche altro mezzo violento.

E da principio optò per il veleno. Ma se glielo si fosse propinato a corte durante il pranzo, non si sarebbe potuto attribuirlo al caso: era già morto in questo modo Britannico. D’altra parte non sembrava facile corrompere i servi di una donna che era pratica di delitti e si guardava dai tranelli. Per di più si era immunizzata con l’uso preventivo di contravveleni. Nessuno trovava il modo di tenere segreta una morte violenta, e d’altra parte Nerone temeva che la persona scelta per commettere un crimine di tale gravità, si rifiutasse di eseguire gli ordini.

A offrigli un’idea ingegnosa fu Aniceto, il liberto che comandava la flotta di Miseno ed era stato precettore di Nerone negli anni della sua fanciullezza. Era malvisto da Agrippina e lui la ricambiava di pari odio. Costui dunque lo informa sulla possibilità di costruire una nave fatta in modo da sfasciarsi in una delle sue componenti, grazie ad un artificio, proprio durante la navigazione in mare, ciò che avrebbe preso alla sprovvista la donna e l’avrebbe fatta precipitare in acqua.

Non c’è niente che provochi incidenti più del mare, e se lei fosse perita in un naufragio, chi sarebbe stato così prevenuto da attribuire ad un delitto ciò che era dovuto ai venti e alle onde?

In più, una volta che lei fosse morta, Nerone le avrebbe fatto erigere un tempio, degli altari e quant’altro servisse a dar prova di amore filiale.

L’ingegnosa trovata piacque, anche perché favorita dalle circostanze, in quanto Nerone celebrava le feste Quinquatri a Baia. Vi invitò sua madre, ripetendo continuamente che bisogna compatire i genitori, se vanno in collera e che si devono placare i risentimenti. Lo scopo era di diffondere la voce di una riconciliazione e che Agrippina vi prestasse fede, propense come sono le donne a dar credito alle buone notizie.

Al suo arrivo poi, le andò incontro sulla spiaggia (proveniva infatti da Anzio), la prese per mano, l’abbracciò e la condusse a Bauli. (Bauli è il nome d’una villa bagnata da un’ansa del mare, fra il promontorio Miseno e il lago di Baia). Ferma in rada, c’era una nave parata a festa più delle altre, come se anche questo fosse un onore concesso alla madre, che di solito viaggiava su una trireme con rematori della marina imperiale. E poi era stata invitata a cena per occultare il delitto con il favore della notte.

è certo che vi fu un traditore e che Agrippina, venuta a conoscenza dell’attentato, non sapendo se dovesse crederci, si fece portare a Baia in lettiga. Qui un’affettuosa accoglienza dissipò le sue paure: fu ricevuta con ogni riguardo e fatta accomodare con precedenza anche rispetto al figlio. Nerone inoltre discorrendo a lungo con lei, ora con giovanile familiarità ora con fare serio, come se la mettesse al corrente di importanti questioni, tirò in lungo il pranzo e al momento di andarsene l’accompagnò, guardandola molto intensamente negli occhi e stringendola al petto, sia per mantenere fino in fondo la finzione, sia che avesse presa sul suo animo, per quanto feroce, il fatto di vedere per l’ultima volta sua madre che stava per morire.

Era una notte stellata, luminosa, tranquilla, con il mare calmo e placido, come se gli dèi volessero fornire una prova del delitto.

E la nave non si era allontanata di molto dalla costa; Agrippina era scortata da due persone del seguito, tra cui Crepereio Gallo, che se ne stava ritto non lontano dal timone, e Acerronia che, ai piedi del letto dov’era coricata Agrippina, le stava ricordando con gioia il ravvedimento di Nerone, il favore che lei come madre aveva riacquistato. Quando, ad un segnale, ecco crollare il soffitto della cabina, appesantito da una notevole quantità di piombo. Crepereio ne rimase schiacciato e morì sul colpo; Agrippina ed Acerronia furono protette dalle spalliere del letto, che erano alte e forse troppo robuste per cedere al peso.

E tuttavia la nave non si sfasciava, perché la confusione era totale e anche perché la maggior parte delle persone, non sapendo nulla della faccenda, ostacolava chi ne era al corrente. Successivamente i rematori pensarono di inclinare la nave su un solo fianco e farla affondare in questo modo. Ma, davanti alla manovra imprevista, non si trovarono subito d’accordo e, siccome gli altri si sforzavano in senso contrario, ciò consentì alle donne di lanciarsi con più calma in mare.

Acerronia però fu tanto imprudente da mettersi a gridare di essere Agrippina e invocare aiuto per la madre dell’imperatore. Venne uccisa a colpi di pertica, con i remi e con le armi navali che capitavano sotto mano. Agrippina se ne stette zitta e perciò non venne riconosciuta (si buscò tuttavia una ferita alla spalla) e nuotando, e poi con l’aiuto delle barche da pesca che le erano venute incontro, riuscì a raggiungere il lago Lucrino e si fece portare nella sua villa.

Là cominciò a riflettere: doveva essere questo lo scopo per cui l’avevano fatta venire con una lettera piena di falsità e l’avevano trattata con speciali onori; e la nave si era sfasciata nella parte superiore, come una costruzione di terraferma, e molto vicino alla spiaggia, senz’essere stata spinta dai venti, senza aver urtato negli scogli. E pensando anche alla fine che aveva fatto Acerronia, e nello stesso tempo osservando la propria ferita, capì che l’unica via di scampo contro l’attentato consisteva nel fingere di non capire.

Spedì dunque il liberto Agermo perché riferisse a suo figlio che lei era scampata ad un grave incidente, grazie alla bontà divina e alla fortuna di Nerone; che lo pregava, anche se spaventato dal pericolo corso dalla madre, di rimandare il pensiero di farle visita: lei per ora aveva solo bisogno di riposo.

E intanto, con finta sicurezza, si fece medicare la ferita e curare la persona. Ordinò di cercare il testamento di Acerronia e mettere sotto sigillo i suoi beni: e solo in questo non c’era finzione.

Nerone invece stava in attesa di notizie sull’esecuzione del crimine. Gli venne riferito che Agrippina se l’era cavata con una leggera ferita, e che aveva corso pericolo solo quanto bastava per non lasciarle dubbi su chi ne fosse l’autore.

Allora, spaventato a morte, cominciò a strillare che Agrippina si sarebbe presentata da un momento all’altro, assetata di vendetta, sia che armasse gli schiavi sia che sollevasse i soldati o ricorresse al senato e al popolo per denunciare il naufragio, la ferita e l’assassinio dei suoi amici.

Lui invece su quale aiuto poteva contare, se non su quello di Burro e di Seneca? E li aveva fatti immediatamente svegliare e venire (non è chiaro se ne erano al corrente anche prima). Entrambi costoro dunque se ne stettero a lungo in silenzio, sia per non sprecare tempo a dissuadere il principe, sia convinti che le cose fossero ormai ad un punto tale che sarebbe stata la fine di Nerone, se non si prevenivano le mosse di Agrippina. Poi fu più risoluto Seneca, almeno tanto da rivolgersi a Burro e chiedergli se era il caso di ordinare ai soldati l’assassinio di Agrippina. Lui rispose che i pretoriani erano legati a tutta la casa dei Cesari e, nel ricordo di Germanico, non avrebbero osato commettere un atto di violenza contro qualcuno dei suoi discendenti. Se mai ci pensasse Aniceto a mantenere fino in fondo le sue promesse.

Costui, senza esitare, si assunse intera l’esecuzione del crimine. E, a quelle parole, Nerone proclamò che l’impero gli veniva dato quel giorno e che un regalo così grande gli era fatto da un liberto. Partisse in fretta Aniceto, portando con sé gli uomini più risoluti nell’eseguire gli ordini.

Intanto Nerone, appena seppe che era arrivato Agermo da parte di Agrippina, preparò di sua iniziativa la messinscena di un delitto. Mentre quello esponeva la sua ambasciata, gli fece gettare tra i piedi una spada. Poi, come se l’avesse colto sul fatto, ordinò di incatenarlo per simulare che sua madre aveva cercato di uccidere l’imperatore e per la vergogna di vedere scoperto il crimine, si era data la morte.

Intanto si era diffusa la notizia del pericolo corso da Agrippina. Lo si credeva dovuto a una disgrazia e fu un affollarsi di gente sulla spiaggia, man mano che ciascuno lo veniva a sapere. Alcuni salivano sui moli, altri sulle barche più vicine; certuni, per quanto glielo consentiva la statura, si inoltravano in mare. Qualcuno tendeva le mani; tutto il litorale echeggiava di lamenti, di preghiere, del chiasso prodotto da chi faceva domande disparate o di chi dava risposte incerte.

Era affluita con le torce una folla immensa e, quando si seppe che Agrippina era sana e salva, le andavano incontro per congratularsi con lei, finché non si dispersero alla vista di una schiera armata e minacciosa.

Aniceto con le sue guardie circondò la villa, sfondò la porta e spazzò via gli schiavi che incontrava finché non arrivò alla porta della camera da letto. Qui stavano di guardia pochi servi, poiché tutti gli altri erano stati costretti alla fuga dall’irruzione dei soldati. Nella stanza non c’era che una fioca luce e una serva soltanto; Agrippina era sempre più inquieta perché da parte di suo figlio non le veniva nessuno, e neppure Agermo. Se le cose avessero preso una piega favorevole, avrebbero avuto tutt’altro aspetto; ora non c’era che solitudine, schiamazzi improvvisi: i segni della catastrofe.

Mentre l’ancella faceva per andarsene e Agrippina le mormorava: “Anche tu mi abbandoni?”, vide Aniceto, scortato dal comandante di una trireme Erculeio e dal centurione della flotta Obarito. Gli disse che, se era venuto per farle visita, riferisse a Nerone che si era ristabilita; se veniva per commettere un delitto, che lei non aveva sospetti sul figlio: non poteva avergli ordinato l’assassinio di sua madre!

I sicari circondarono il letto e fu il comandante della trireme a colpirla per primo al capo con un bastone. Il centurione sguainò la spada per darle il colpo di grazia e lei mostrando il suo grembo gridò: “Colpisci al ventre” e fu crivellata di ferite.

Fin qui la tradizione è concorde. Se Nerone sia andato a vedere il corpo senza vita della madre e ne abbia lodato la bellezza, c’è chi lo dice, c’è chi lo nega.

La donna fu cremata quella stessa notte, su un divano da mensa, con povere esequie; e finché fu al potere Nerone, non le venne eretto né un tumulo né una recinzione. Ebbe, qualche tempo dopo, una tomba modesta a cura dei domestici, vicino alla via di Miseno e alla villa di Cesare dittatore che, per essere molto in alto, domina le insenature sottostanti. Una volta acceso il rogo, uno dei suoi liberti di nome Mnestero si trafisse con un pugnale, non si sa se per affetto verso la padrona o per paura di fare una brutta morte.

Di fare questa fine, Agrippina era venuta a saperlo molti anni prima, ma non se n’era data pensiero. Aveva consultato gli indovini Caldei per conoscere il destino di Nerone, e costoro le avevano risposto che sarebbe diventato imperatore, ma che avrebbe ucciso sua madre. E lei aveva esclamato: “E che mi uccida, purché diventi imperatore!”.

Ma Nerone comprese l’enormità di quel delitto solo dopo averlo commesso. Per il resto della notte ora se ne stava immobile in silenzio, più spesso saltava su dalla paura e come fuori di sé aspettava il mattino, quasi dovesse portargli l’estrema rovina.

Ma a ridargli speranza arrivò l’omaggio servile dei centurioni e dei tribuni mandati da Burro, che volevano stringergli la mano e congratularsi con lui per essere scampato all’improvviso pericolo e al delitto ordito da sua madre. Poi cominciò la processione dei suoi amici ai templi e, sul loro esempio, vennero ad esprimere il loro giubilo le città più vicine della Campania, sacrificando vittime e mandando ambascerie. Quanto a lui ora fingeva il contrario: si mostrava triste, quasi irritato di essere sano e salvo e piangeva sulla morte della madre.

Ma i luoghi non cambiavano faccia al pari delle persone. E poiché aveva sempre sotto gli occhi la vista insopportabile di quel mare e di quella spiaggia (e qualcuno credeva di sentire sulle colline circostanti un suono di tromba e dei lamenti provenienti dalla tomba della madre), Nerone se ne venne a Napoli. E mandò al senato una lettera nella quale diceva in sostanza che Agermo, l’assassino, uno tra i liberti più legati a sua madre, era stato sorpreso con un’arma in pugno e che Agrippina, presa dal rimorso, si era data da sola quel castigo, come se fosse stata lei a ordire il delitto.

Aggiungeva altri capi d’accusa, risalendo piuttosto indietro nel tempo. E cioè: che aveva sperato di regnare assieme al figlio; che aveva preteso dalle coorti dei pretoriani il giuramento di fedeltà ad una donna; che avrebbe voluto infliggere eguale disonore al senato e al popolo; e il fatto che, una volta fallite le sue mire, per ostilità verso l’esercito, verso il senato e la plebe, si fosse opposta ad un premio in denaro e ad un regalo in viveri, e avesse messo in pericolo la vita di uomini illustri. Quanto aveva faticato per impedirle di irrompere in senato per dare risposta ai popoli stranieri!

Nerone inoltre, con una indiretta critica ai tempi di Claudio, riversò sulla madre tutti gli scandali di quel regno, sostenendo che la sua morte era stata un bene per lo stato. E infatti raccontava anche la storia del naufragio; ma si poteva trovare uno così stupido da crederlo dovuto al caso? O da credere che una donna, appena scampata ad un naufragio, mandasse un uomo da solo e armato di un pugnale, a sgominare coorti e flotte imperiali?

E così al centro delle critiche ostili non era più Nerone, la cui ferocia superava ogni sdegno, ma Seneca, perché con un simile discorso aveva scritto la confessione del delitto.

(Annali, XIV, 1-11)

[…]

Una vittima innocente (62 d.C.)

E così a vent’anni, benché circondata da centurioni e soldati e già fuori della vita per il presentimento delle sue disgrazie, tuttavia la ragazza non si rassegnava ancora a morire.

Poi passati pochi giorni, le venne intimata la morte. Lei protestava di non essere più la moglie ma soltanto la sorella di Nerone, e invocava i Germanici, comuni antenati, e infine il nome di Agrippina perché, viva lei, aveva sì dovuto subire un matrimonio infelice, ma non la morte.

La legarono saldamente, le tagliarono le vene di tutte le membra e, siccome il sangue ristagnava per lo spavento e sgorgava troppo lentamente, la fecero morire soffocata dal vapore in un bagno caldissimo. Aggiunsero un gesto di crudeltà ancora più atroce: le tagliarono la testa, la portarono a Roma; e Poppea la venne a vedere.

A che scopo ricordare che per un’infamia del genere furono decretate delle offerte ai templi? Tutti quelli che verranno a conoscere, da noi o dagli altri storici, le disgraziate vicende di quei tempi, sappiano sin d’ora che si sono ringraziati gli dèi ogni volta che l’imperatore intimava a qualcuno l’esilio o la morte. Sappiano che i riti, una volta celebrati per segnalare fausti eventi, allora erano diventati il segno di una calamità pubblica. E tuttavia non staremo in silenzio, davanti ad un decreto del senato pieno di adulazioni inaudite o al colmo del servilismo.

(Annali, XIV, 64)

La figlia di Nerone e di Poppea (63 d.C.)

Sotto il consolato di Memmio Regolo e Verginio Ruffo, Nerone ebbe da Poppea una figlia e accolse la notizia con manifestazioni di gioia eccessive per un evento comune. La chiamò Augusta e conferì lo stesso titolo anche a Poppea; il parto avvenne nella colonia di Anzio dove lui stesso era nato.

Il senato aveva già raccomandato agli dèi la gravidanza di Poppea e formulato pubblici voti, che poi vennero moltiplicati e rispettati. E in più si decisero: preghiere di ringraziamento agli dèi, la consacrazione di un tempio alla dea della Fecondità; e, sull’esempio della festività di Azio, si istituirono dei giochi sacri; fu deciso di mettere sul trono di Giove Capitolino le statue in oro delle due Fortune; si stabilì che ad Anzio si offrissero i giochi del circo delle famiglie Claudia e Domizia, a somiglianza di quelli che a Boville venivano dati in onore della famiglia Giulia.

Onori effimeri, perché la bambina morì quando non aveva ancora quattro mesi. E allora si rinnovarono i gesti di adulazione servile da parte dei senatori che decretarono la sua divinizzazione, un letto sacro, un tempio e un sacerdote. Quanto a Nerone fu esagerato nel manifestare il suo dolore come lo era stato nell’esprimere la propria gioia.

(Annali, XV, 23)

L’incendio di Roma (64 d.C.)

In seguito capitò un disastro - non si sa se dovuto al caso o alla perfidia dell’imperatore (gli storici ci hanno fornito entrambe le versioni) - ma più grave e più spaventoso di quanti se ne sono verificati a Roma per la violenza del fuoco.

Cominciò in quella parte del Circo Massimo che confina con i colli Palatino e Celio dove il fuoco, grazie alle botteghe stipate di merci infiammabili, nello stesso tempo scoppiò, divampò subito gagliardo e, attizzato dal vento, si appiccò al circo per tutta la sua lunghezza. E in mezzo infatti non c’erano case protette da opere di difesa né templi circondati da muri o qualcos’altro che ostacolasse le fiamme. L’incendio in un primo momento si propagò con violenza nelle zone pianeggianti, poi si sollevò verso le alture, poi di nuovo devastò le parti situate più in basso, e la velocità del flagello prevenne ogni rimedio, perché la città con le sue strade strette e tortuose e con i quartieri irregolari, com’era la Roma antica, si trovava esposta al pericolo.

Per di più le donne che si lamentavano in preda al panico, i vecchi deboli, i ragazzi privi di esperienza, le persone che pensavano alla salvezza propria e a quella degli altri, portando via gli invalidi o aspettandoli, gli uni a rilento gli altri di fretta, ostacolavano ogni operazione. E sovente, mentre si guardavano alle spalle, si trovavano circondati sui fianchi o di fronte o, se erano riusciti a fuggire nelle vicinanze, si trovavano nella medesima disgraziata situazione, poiché il fuoco si era appiccato anche ai quartieri che si pensavano lontani dalle fiamme. Infine, non sapendo più da che cosa guardarsi o dove trovare riparo, affollavano le strade, si coricavano nei campi. Certuni, perduti tutti i loro beni e anche il necessario per sfamarsi quel giorno, altri per amore verso i loro cari che non avevano potuto portare in salvo, perirono anche se si apriva una via di scampo.

E nessuno osava mettervi riparo, per le frequenti minacce di molti individui che impedivano di spegnere le fiamme, e perché altri, sotto gli occhi di tutti, gettavano dei tizzoni ardenti. E dicevano che erano autorizzati a farlo, sia per darsi con maggiore libertà alle rapine sia perché avessero ricevuto un ordine.

Nerone in quel momento si trovava ad Anzio e non tornò a Roma se non quando il fuoco si avvicinò alla casa che si era costruita per collegare il Palatino con i giardini di Mecenate. E tuttavia non si poté impedire al fuoco di divorare il Palatino, le case e ogni cosa attorno. Ma per dare sollievo ai senza tetto e ai profughi, fece aprire il Campo di Marte, gli edifici di Agrippa e persino i suoi giardini. E fece costruire delle case di fortuna per accogliere la folla dei diseredati; fece anche arrivare da Ostia e dalle città vicine i generi di prima necessità e ribassò il prezzo del grano sino a tre sesterzi.

Ma questi provvedimenti, benché presi a favore del popolo, non approdavano a nulla, perché si era diffusa la voce che Nerone, nel momento stesso in cui la città era in preda alle fiamme, fosse salito sul suo palcoscenico privato per cantare la distruzione di Troia, paragonando l’attuale disgrazia ai disastri del passato.

Solo al sesto giorno l’incendio fu spento alle falde dell’Esquilino con la demolizione degli edifici su un immenso tratto, per opporre alla furia inarrestabile delle fiamme l’aperta campagna e, per così dire, il cielo vuoto. Ma la paura non era ancora cessata e la popolazione non aveva ripreso speranza. E il fuoco tornò a divampare, di più nelle zone ampie della città, e perciò con minor numero di vittime: crollarono su un tratto più vasto i templi degli dèi e i portici destinati allo svago.

E fu questo incendio a fare più scandalo, perché era scoppiato nelle proprietà di Tigellino del quartiere Emiliano, e sembrava che Nerone mirasse alla gloria di fondare una nuova città chiamandola con il proprio nome. Poiché dei quattordici rioni in cui Roma è divisa, ne restavano intatti quattro, tre erano rasi al suolo e negli altri sette rimanevano pochi ruderi diroccati e semibruciati di case.

(Annali, XV, 38-40)

La Domus aurea

Nerone comunque si servì delle rovine della città per costruirsi una reggia, dove destavano meraviglia non tanto le pietre preziose e l’oro (cose in uso ormai da tempo e diffuse dal lusso), quanto i campi coltivati, i laghi e da una parte delle foreste come nei luoghi selvaggi, dall’altra spazi aperti e vedute panoramiche. Lavori che erano stati diretti e progettati da Severo e da Celere, geniali ed audaci nel tentare di riprodurre artificialmente ciò che la natura aveva negato, e a sbizzarrirsi con le ricchezze del principe. E infatti costoro gli avevano promesso di scavare un canale navigabile dal lago Averno sino alle foci del Tevere, lungo un litorale deserto o attraverso l’ostacolo delle montagne. E infatti, ad eccezione delle paludi Pontine, non s’incontrano altri terreni acquitrinosi da cui derivare le acque: tutto il resto è scosceso o arido e, se anche fosse possibile aprire un varco, la fatica sarebbe insopportabile e non giustificata. Nerone però, avido com’era di cose straordinarie, si sforzò di perforare le montagne più vicine al lago Averno, e restano tuttora i segni di quel progetto andato in fumo.

Comunque sulle aree cittadine rimaste libere dalla reggia, non si edificò in modo disordinato e senza un piano regolatore (com’era avvenuto dopo l’incendio appiccato dai Galli), ma allineando con ordine i quartieri, lasciando largo spazio alle strade, limitando l’altezza delle costruzioni, aprendo dei cortili e in più dei portici per proteggere sulla facciata gli isolati.

Nerone promise che quei portici li avrebbe costruiti a proprie spese, restituendo ai proprietari le aree, una volta sgomberate dalle macerie. Offrì in più degli incentivi proporzionati al ceto e al patrimonio di ciascuno, e stabilì una scadenza entro la quale, avendo ricostruito le case o gli isolati, si potevano ottenere.

Allo scarico delle macerie destinò le paludi di Ostia, e dispose che le navi, che risalivano il Tevere trasportando il grano, ridiscendessero cariche di macerie. Stabilì che gli edifici stessi in certe loro parti fossero consolidati non con travi di legno, ma con pietra di Gabii o di Alba, perché refrattaria al fuoco. Inoltre dispose un servizio di vigilanza perché l’acqua, abusivamente deviata dai privati, sgorgasse più abbondante e in più punti per l’uso pubblico; dispose che ciascuno dovesse tenere a portata di mano i mezzi antincendio e che non ci fossero pareti in comunione, ma ogni edificio fosse circondato da muri propri. Tali provvedimenti, accolti con favore per la loro utilità, servirono pure ad abbellire la nuova città.

Secondo qualcuno però, il vecchio tracciato era più salubre in quanto le strade strette e le case alte non lasciavano penetrare altrettanto la vampa del sole: mentre ora quegli spazi larghi, non protetti da un po’ d’ombra, si arroventavano e il caldo era ben più opprimente.

(Annali, XV, 42-43)

La persecuzione contro i cristiani (64 d.C.)

Furono questi, i provvedimenti suggeriti dalla prudenza umana. In seguito si ricorse a riti di espiazione verso gli dèi e vennero consultati i libri Sibillini. In base ad essi, furono rivolte preghiere pubbliche a Vulcano, a Cerere, a Proserpina e, tramite le matrone, fu celebrato un sacrificio espiatorio a Giunone, prima sul Campidoglio e poi lungo la riva del mare più vicino. Di qui si attinse l’acqua per aspergere il tempio e la statua della dea; e le donne che avevano ancora in vita il marito celebrarono dei banchetti offerti alle dee e veglie religiose.

Ma le misure in potere dell’uomo, le elargizioni dell’imperatore e le cerimonie espiatorie verso gli dèi, non mettevano fine alla voce infamante che l’incendio fosse stato ordinato dall’imperatore. Nerone allora, per soffocare le dicerie, fece passare per colpevoli, e condannò a raffinatissime pene, quelli che la gente chiamava Cristiani e detestava per i loro crimini vergognosi.

Il loro nome deriva da Cristo, condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato, sotto il principato di Tiberio. Quella rovinosa superstizione, soffocata sul momento, dilagava nuovamente, non solo nella Giudea da cui aveva avuto origine quel malanno, ma anche a Roma, dove affluiscono da ogni parte atrocità o ignominie di ogni specie e trovano molti seguaci. In un primo momento dunque vennero arrestati quelli che si confessavano cristiani, poi sulla base delle loro indicazioni, una folla enorme di persone, di cui fu provata la colpevolezza non tanto dell’incendio quanto di odio verso il genere umano.

E alla condanna a morte si aggiunse lo scherno. Ricoperti con le pelli di bestie feroci, morirono sbranati dai cani o crocifissi o arsi vivi, bruciando come fiaccole nella notte, quando veniva meno la luce del sole. Per un simile spettacolo Nerone aveva messo a disposizione i suoi giardini e offriva delle gare nel circo, mescolandosi alla plebaglia in abito da auriga o ritto sul cocchio. Di conseguenza costoro, anche se colpevoli e meritevoli di pene esemplari, finivano per destare compassione in quanto venivano sacrificati non per il bene di tutti, ma per la ferocia di uno solo.

(Annali, XV, 44)

Spoliazione delle province d’Italia

Intanto, per raccogliere denaro, fu depredata l’Italia, furono spogliate le province, le nazioni alleate e le città dette «libere». E a far parte del bottino entrarono persino le divinità, perché a Roma furono spogliati i templi e fu portato via l’oro che il popolo romano aveva consacrato agli dèi in ogni epoca della sua storia, in occasione di trionfi o facendo voti, nei momenti di prosperità o di paura. E in Asia e nell’Acaia si asportavano per giunta non solo i doni votivi ma le statue degli dèi, da quando erano stati mandati in quelle province Acrato e Secondo Carrinate. Un ex schiavo, il primo, e disposto a qualunque infamia; il secondo nutrito di filosofia greca, ma solo a parole, e del tutto sfornito di buone qualità.

Seneca, a quanto si diceva, aveva chiesto di ritirarsi lontano in campagna per allontanare da sé l’odiosità di quei furti sacrileghi e, poiché non gli veniva concesso, si finse malato e non uscì dalla sua stanza, come se avesse un attacco di gotta.

Stando al racconto di alcuni storici, un suo liberto di nome Cleonico, per ordine di Nerone, gli aveva preparato del veleno, ma Seneca era scampato al pericolo o perché il liberto aveva tradito il segreto o per la sua personale diffidenza, dal momento che campava con cibi molto semplici, con frutti selvatici e, quando gli veniva sete, con acqua corrente.

(Annali, XV, 45)

[…]

La morte di Lucano, nipote di Seneca

Subito dopo, Nerone ordina la morte di Anneo Lucano. Costui, mentre il sangue gli sgorgava abbondante, si accorse che piedi e mani gli diventavano freddi, che dalle estremità la vita se ne andava poco a poco, ma che lo spirito era ancora vivace e la mente lucida. Si ricordò allora di aver composto dei versi in cui raccontava la storia di un soldato ferito che aveva fatto una morte simile alla sua. Recitò proprio quelli, e furono le sue ultime parole.

Morirono in seguito Senecione, Quinziano e Scevino mostrando più coraggio che in passato, e poco dopo tutti gli altri congiurati, senza fare o dire cosa che valga la pena d’essere ricordata.

(Annali, XV, 70)

La fine di Poppea (65 d.C.)

Finiti i giochi quinquennali, morì Poppea, vittima di un improvviso scatto d’ira del marito: era incinta e lui la colpì con un calcio. Infatti non credo alla tesi del veleno (anche se lo riferiscono certi storici mossi più dall’odio che dalla buona fede), perché l’imperatore desiderava molto avere dei figli ed era pazzo d’amore per la moglie.

La sua salma non venne cremata come si usa a Roma, ma fu imbalsamata con sostanze aromatiche, secondo la tradizione dei re stranieri, e tumulata nel sepolcro della famiglia Giulia.

Però le furono celebrati i funerali di stato e Nerone in persona, dalla tribuna degli oratori, ne lodò la bellezza, lodò che avesse dato alla luce una bambina degna di onori divini e parlò delle altre sue doti naturali, come se si trattasse di altrettante virtù.

(Annali, XVI, 6)

La morte di Petronio (66 d.C.)

Per quanto riguarda Petronio, devo rifarmi un po’ più indietro. Poiché costui trascorreva le giornate dormendo e dedicava la notte ai doveri e ai piaceri della vita, e se gli altri dovevano la loro fama all’attività, costui era diventato celebre grazie alla propria indolenza, e non era considerato un gaudente e uno sprecone, come la maggior parte di quelli che sperperano i loro beni, ma un raffinato uomo di mondo. E più le sue parole e i suoi atti erano anticonformisti e rivelavano una certa disinvoltura, più erano graditi e presi come espressione di franchezza. Però come proconsole della Bitinia, e poi come console, si era mostrato energico ed all’altezza dei suoi compiti.

In seguito, ricaduto nei vizi, o grazie ad una maschera viziosa, fu accolto da Nerone tra i pochi suoi amici intimi, come arbitro di buon gusto, finché a giudizio dell’imperatore non ci fu niente di bello e di piacevole nel lusso sfrenato della corte, se non ciò che aveva meritato l’approvazione di Petronio. Da ciò la gelosia di Tigellino che in lui vedeva un rivale, e uno più bravo nell’arte del piacere. Fu dunque costui a stuzzicare la crudeltà dell’imperatore, che in lui prevaleva su ogni altra passione; e rimproverò a Petronio l’amicizia con Scevino, dopo aver corrotto uno schiavo perché lo denunciasse, e avergli tolta ogni possibilità di difesa con l’arresto di gran parte dei suoi schiavi.

Per caso, in quei giorni, l’imperatore era venuto in Campania e Petronio, che si era spinto fino a Cuma, veniva trattenuto lì; e lui non sopportò di prolungare ancora i suoi timori o le sue speranze. E tuttavia non fu precipitoso nel togliersi la vita, ma si fece tagliare le vene e, dopo averle fasciate, se le fece di nuovo aprire, come gli garbava; e conversava con gli amici non di argomenti seri o tali da meritargli una fama di intrepidezza. E stava a sentirli se non gli parlavano dell’immortalità dell’anima o di princìpi filosofici, ma se gli citavano poesie piacevoli e versi scherzosi.

Ad alcuni schiavi fece dare dei regali, ad altri delle bastonate. Cominciò un banchetto, dormì un poco, in modo che la morte, a cui veniva costretto, paresse accidentale. Nei codicilli al suo testamento non adulò Nerone o Tigellino (come faceva la maggior parte dei condannati a morte) o qualche altro potente personaggio, ma descrisse minutamente gli scandali dell’imperatore con l’elenco dei bagascioni e delle sue donne, e tutte le perversioni della sua vita sessuale. Poi lo sigillò e lo mandò a Nerone. E spezzò l’anello col sigillo perché in seguito non potesse servire a mettere qualcun altro nei guai.

(Annali, XVI, 18-19)

* * *

La fine di Nerone (68 d.C.) secondo Svetonio

La perdita di una parte del libro XVI degli Annali (quella finale), non ci consente di completare il ritratto di Nerone, che Tacito era venuto tracciando con tanto incisivo vigore. Ricorriamo perciò ad uno storico tanto meno vivace e acuto di lui, e cioè a Svetonio e alle sue Vite dei Cesari, riportando alcuni passi della biografia di Nerone, quelli relativi alle ultime ore del tiranno.

In precedenza Nerone non era solito fare dei sogni, ma dopo aver fatto assassinare sua madre gli sembrò nel sonno di pilotare una nave e che il timone gli fosse strappato di mano, mentre lui veniva trascinato da sua moglie Ottavia nel buio più fitto. Ed ora si trovava ricoperto da un nugolo di formiche alate, ora veniva circondato dalle statue delle nazioni, erette presso il teatro di Pompeo che gli impedivano di proseguire. Il suo cavallo d’Asturia che gli era carissimo, si era trasformato nella parte posteriore del corpo in una sorta di scimmia, mentre era rimasta intatta soltanto la testa ed emetteva sonori nitriti. Le porte del Mausoleo di Augusto si erano spalancate da sole e si era udita una voce che lo chiamava per nome. Il primo di gennaio erano crollati i Lari, addobbati com’erano, nel bel mezzo dei preparativi per il sacrificio. […]

Intanto, ricevuta la notizia che anche gli altri eserciti si erano ribellati, stracciò la lettera che gli avevano recapitato durante il pranzo, rovesciò la tavola, gettò per terra e fracassò due coppe di cui si serviva molto volentieri (e che chiamava «omeriche» perché portavano incisi versi di Omero) e fattosi dare del veleno da Locusta, lo ripose in una scatoletta d’oro e si trasferì nei giardini di Servilio.

Qui, fattosi precedere dai liberti più fidati ad Ostia per allestire una flotta, tentò di convincere i tribuni e i centurioni della guardia del corpo ad accompagnarlo nella fuga.

Ma alcuni di loro prendevano tempo, altri gli rispondevano apertamente di no. Uno anzi gli gridò:

“è così gran male la morte?”

Prese in esame diverse soluzioni: se andare a supplicare i Parti o Galba, o se presentarsi in pubblico vestito a lutto e dalla tribuna degli oratori chiedere perdono delle colpe passate, suscitando tutta la compassione possibile, e, se non fosse riuscito a piegare gli animi, chiedere per sé il governo dell’Egitto. In seguito venne trovato in un suo cofanetto un discorso su questo argomento; ma, a quanto pare, ne sarebbe stato distolto dalla paura di venire linciato prima di arrivare nel foro.

Così, rinviata la decisione al giorno dopo, svegliatosi verso la mezzanotte e accortosi che le guardie del corpo se n’erano andate, balzò su dal letto e mandò in giro gli amici. E poiché nessuno tornava a riferirgli qualcosa, andò lui con poche persone a chiedere ospitalità a ciascuno successivamente. Ma viste chiuse tutte le porte e che nessuno rispondeva, tornò nella camera da letto, da cui erano ormai scappati pure i custodi, dopo aver rubato anche le coperte e portato via persino la scatoletta con il veleno.

E subito cercò il gladiatore Spiculo, o un qualunque altro sicario, per morire di sua mano. Non avendo trovato nessuno, esclamò: “Io dunque non ho più né un amico né un nemico?”. E corse via, come se volesse gettarsi nel Tevere.

Ma, frenato ancora quell’impulso, sentì il bisogno di un nascondiglio più appartato per riprendere coraggio. E poiché il liberto Faonte gli metteva a disposizione una sua villa a circa quattro miglia da Roma, tra la via Nomentana e la via Salaria, a piedi nudi e solo con la tunica, si buttò sulle spalle una mantellina scolorita, si coprì la testa e montò a cavallo, con un fazzoletto calato sul viso e un seguito di sole quattro persone, tra cui vi era anche Sporo.

E subito, spaventato da una scossa di terremoto e da un fulmine che gli era caduto davanti, sentì le grida dei soldati che dall’accampamento più vicino auguravano del male a lui e buona fortuna a Galba. E da uno dei passanti che aveva incontrato sentì anche dire: “Stanno inseguendo Nerone, costoro?”; e sentì un altro che chiedeva: “Ci sono novità, a Roma, su Nerone?”.

Poi, il cavallo si spaventò per il fetore di un cadavere abbandonato sulla strada, la sua faccia si scoprì e lui fu riconosciuto e salutato da un pretoriano in congedo.

Arrivati ad una via traversa, lasciarono i cavalli e Nerone, tra cespugli e roveti, lungo il viottolo di un canneto, con molta difficoltà, dopo aver steso sotto i suoi piedi la veste, arrivò al muro posteriore della villa. Una volta là, poiché Faonte lo incitava a nascondersi per il momento in una cava di sabbia, lui disse che sottoterra da vivo non ci voleva andare. E dopo una breve attesa, aspettando che gli preparassero un ingresso segreto alla villa, da una pozza vicina attinse con il cavo della mano un po’ d’acqua da bere. E disse: “Ecco la bevanda di Nerone”.

Poi con il mantello strappato dai rovi, strisciò sui cespugli che gli ingombravano il passaggio. E così, procedendo carponi in una stretta buca che gli avevano scavato, si rifugiò nella stanzetta più vicina e si coricò su un letto preparato con un modesto materasso su cui era stesa una vecchia mantellina. Spinto dalla fame e poi di nuovo dalla sete, rifiutò il pane cattivo che gli veniva offerto, ma bevve una discreta quantità di acqua tiepida.

Allora mentre ciascuno insisteva, chi da una parte chi dall’altra, perché si sottraesse alle umiliazioni che lo aspettavano, Nerone ordinò di scavare in sua presenza una fossa sulla misura del suo corpo, e fece raccogliere dei pezzi di marmo (quelli che si potevano trovare) e portare acqua e legna per prendersi poi cura del suo cadavere. E piangeva su ogni cosa e ripeteva di continuo: “Che artista muore con me!”.

Nel frattempo, un corriere consegnò un biglietto a Faonte. Lui glielo strappò di mano, lesse che il senato lo aveva dichiarato nemico pubblico e che lo si ricercava per punirlo secondo la tradizione degli antenati. Domandò di che specie di pena si trattasse; venne a sapere che, spogliato nudo, gli avrebbero infilato il collo in una forca, e che il suo corpo sarebbe stato battuto con verghe sino a farlo morire. Terrorizzato, afferrò due pugnali che aveva portato con sé, provò la punta di entrambi, ma tornò a metterli nel fodero con il pretesto che non era ancora giunta l’ora fatale.

E ora incitava Sporo a cominciare i lamenti e battersi il petto, ora pregava che qualcuno con il suo esempio lo aiutasse ad affrontare la morte. A volte se la prendeva con la propria indolenza con parole come queste: “Il mio comportamento è vergognoso, indegno - non è, non è da Nerone - ci vuole saggezza in simili momenti: animo, svegliati!”.

E ormai si stavano avvicinando i soldati a cavallo a cui era stato ingiunto di riportarlo vivo, lui se ne accorse e mentre pronunciava con apprensione:

“Di cavalli dal piè veloce
mi colpisce all’orecchio il galoppo”

si piantò l’arma nella gola, aiutato da Epafrodito, il segretario addetto alle suppliche.

E, ancora semivivo, al centurione che faceva irruzione e gli metteva il mantello sulla ferita, fingendo d’essergli venuto in soccorso, non rispose che questo: “Troppo tardi! è questa la fedeltà?”.

E con queste parole sulle labbra spirò, con gli occhi fuori dalle orbite e lo sguardo fisso al punto da mettere i brividi e incutere spavento in chi veniva a vedere.

Da quelli del seguito non aveva preteso niente di meglio o di più di questo: che il suo capo non fosse abbandonato in balìa di nessuno, ma che lui comunque venisse cremato tutto intero.

E questo gli venne concesso da Icelo, il liberto di Galba liberato poco prima dal carcere dov’era stato gettato all’inizio della sollevazione.

(dalle Vite dei Cesari, Nerone, capp. 46-49)

  

  

 


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