Prefazione
INTRODUZIONE
Il testo
Il titolo
Edizioni e traduzioni
Le fonti manoscritte
Il contenuto
Scopo della pratica
Consultante, divinante, intermediario
La pratica più usuale
Casi particolari
Prospetto riassuntivo del testo
Collegamenti
Il significato e il contenuto speculativo delle tecniche
Conclusioni interpretative
BIBLIOGRAFIA
INDICE - GLOSSARIO
PASSI SCELTI
Lo Shivasvarodaya appartiene di pieno diritto alla letteratura âgamica (più genericamente nota come tantrica) quanto al suo aspetto: consiste infatti in un dialogo che Shiva intrattiene con la sua consorte Pârvatî per illuminarla su alcuni insegnamenti specifici riguardanti tecniche di divinazione. Non è quindi (almeno dal punto di vista della tradizione) attribuibile ad autore umano, ma sgorga dalla bocca stessa della divinità. Coerentemente non viene perciò neppure menzionato il nome del diaschevaste che l'ha trascritto.
Il titolo si può rendere (in maniera piuttosto estesa) «La buona fortuna risultante (udaya) dal passaggio dell'aria attraverso le narici (svara) secondo Shiva».
Udaya è termine che indica il sorgere, il divenir visibile, l'apparire di qualcosa, e quindi «sviluppo, produzione», ma anche«conclusione, risultato, conseguenza». In fonetica indicherà quindi un suono susseguente. Ma ha il senso anche di «sollevarsi, raggiungere il proprio scopo, elevarsi», valore che sta alla base del movimento gandhiano propugnato da Vinoba Bhave (sarvodaya) e quindi indica «successo, prosperità, buona fortuna, profitto, entrate, interessi.» Per estensione significa infine «oriente», in quanto dirczione del sorgere del sole. La resa con «buona fortuna risultante da» cerca di coniugare i due valori principali («sorgere» ed «elevarsi»). Udaya figura come termine finale di composto nei titoli di due poemi allegorico-filosofici, il Prabodhacandrodaya di Krsnamishra e il Sankalpasûryodaya di Venkathanâtha.
Svara deriva dalla radice svr che vale «risuonare, emettere suono» (connessa con il greco surinx, latino susurrus, tedesco schwirren, inglese swarm), e indica quindi anzitutto «suono, rumore, voce». Quest'ultimo senso è quello in cui il termine è adoperato in medicina, ove tra i segni di morte che il medico deve investigare è menzionata l'alterazione della voce (svara). Il termine indica anche l'accento (specie come termine generico abbracciale i tre tipi dell'accento musicale vedico), e prende il significato tecnico di «nota musicale» (la scala indiana contando sette note, svara passa a designare il nome simbolico del numero sette). In fonetica il valore specifico del termine è «vocale», dal grammatico Patanjali ricostruito con la paretimologia svayam râjate «è autonomo», dacché indica esattamente la classe di suoni che possono essere pronunciati da soli, mentre consonanti e semivocali hanno bisogno di appoggiarsi ad essi. Il significato tecnico che però più direttamente ci concerne è quello di «aria respirata attraverso le narici», ove sono messi in rilievo entrambi gli aspetti del suono prodotto da tale passaggio e del coacervo di sensazioni che esso ingenera: attrito, calore o frescura (nelle due fasi espiratoria ed inspiratoria), velocità di transito ecc.
Le edizioni e traduzioni su cui si basa il presente lavoro sono quattro, tutte prive di indicazioni precise sulle fonti manoscritte: Ram Kumar Rai, Shiva Svarodaya, Text with English Translation by, Prachya Prakashan, Varanasi, 1980; Alain Daniélou, Le Shiva-Svarodaya, La naissance du Soufflé de Vie révelé par le dieu Shiva, Ancien Traité de Présages et Prémonitions d'après le soufflé vital, traduit du Sanskritpar, Arche, Milano, 1982; Swara Muktibodhananda Saraswati (under the guidance of Swami Satyananda Saraswati), Swara Yoga, The Tantric Science of Brain Breathing, Including the Original Sanskrit Text of The Shiva Swarodaya with Translation in English, Bihar School of Yoga, Munger (Bihar), Ist Australian ed. 1983, Ist Indian ed. 1984; Camanlâl Gautama, Brhat Shivasvarodaya (svara vijnâna sambandhî Shivapârvatî samvâda sarala tîkâ sahitâ), Samskrti Samsthân, Bareli, 1984. Il testo e la traduzione di Rai sono generalmente corretti, un po' meno quelli di Muktibodhananda e Gautama. La resa di Daniélou è spesso fuorviante e segue probabilmente un testo un poco diverso da quello proposto da Rai.
Le fonti manoscritte tuttavia non mancano, e pur non essendoci state accessibili non c'è ragione di non darne notizia.
Secondo Aufrecht esistono due manoscritti recanti il titolo di Shivasvarodaya, l'uno conservato a Ulwar, l'altro nella zona di Bombay.
Il genere letterario dei trattati di divinazione, cui il nostro testo appartiene, occupa una posizione non marginale accanto ad altri quattro gruppi, accomunati dalla caratteristica di contenere nel titolo il termine svara adoperato però con valenze e significati diversi per ciascuno di essi. Così vi saranno trattati che si occupano dell'accento vedico e più in generale di questioni grammaticali o fonetiche, altri che hanno per argomento la musica, opere di contenuto medico ed astrologico. Si noti che negli ultimi due casi si verifica spesso una sovrapposizione con le caratteristiche proprie dei testi divinatori, dacché il legame tra mantica e prognosi terapeutica da un lato, astrologia dall'altro è assai stretto in molte civiltà antiche.
Né mancano titoli di trattati specifici spesso corredati dell'indicazione dell'autore.
Ad esempio uno Shivasvarodaya farebbe parte del Rudrayâmalatantra, così come un Samaravijaya. La consultazione di un'edizione a stampa dell’âgama in discorso ha dato tuttavia esito negativo al riguardo. Vi si rinviene invece una sezione intitolata Pancasvaramahâyoga, che si occupa però soprattutto della glorificazione di bîjamantra dedicati a divinità femminili (oltreché di tecniche di meditazione di vario tipo su base fisiologica) e non ha a che vedere con un'attitudine divinatoria. Si può presumere che la famiglia di manoscritti su cui si basa redizione di Varanasi del Rudrayâmala non comprenda quelli presi in considerazione da Aufrecht e dalle sue fonti (P. Peterson e F. Kielhorn).
Caratteristiche generali
Le caratteristiche generali della tecnica di divinazione su cui si basa il trattato sono le seguenti.
Il fenomeno che consiste nel flusso alternato del respiro ora nell'una ora nell’altra narice è considerato indice (o, secondo una terminologia medica, sintomo) degli sviluppi della situazione in esame. I periodi in cui invece il respiro fluisce in entrambe le narici liberamente, essendo molto limitati nell’arco della giornata, e costituendo semplicemente il momento di transizione tra la narice libera che progressivamente si ostruisce e quella ostruita che man mano si apre, assumono un'importanza minore ai fini dell'interpretazione divinatoria del fenomeno respiratorio. La struttura così congegnata comprenderebbe solo la possibilità di una risposta binaria (sì/no, bene/male), a seconda se il respiro fluisca nell'una o nel!'altra narice. Una terza possibilità è immediatamente offerta dal caso in cui entrambe le narici siano libere. Per introdurre ulteriore gioco nel sistema vengono inserite alcune varianti, la più importante delle quali è rappresentata dall’entrata in gioco dei cinque princìpi di realtà (tattva): terrestre, acqueo, igneo, aereo e proprio dello spazio. E’ possibile determinare con l'osservazione quale di questi princìpi sia dominante nel respiro che passa in una delle due narici. Viene attribuito un valore positivo o negativo nei riguardi di iniziative specie che al respiro che passa in una narice con la predominanza di questo o quel tattva. Più in generale nel caso di una risposta binaria (sì/no) non ulteriormente qualificata si considera di buon augurio il fatto che il consultante si accosti al divinante dallo stesso lato in cui per quest'ultimo è attivo lo svara, sfavorevole l'eventualità opposta. Viene individuato un duplice ordine nel ritmo di alternanza (del respiro nelle narici e dei tattva nel respiro), l'uno circadiano, l'altro nell'àmbito del mese. Il sistema così ottenuto presenta una vasta gamma di possibilità e consente quindi di diversificare largamente le risposte, adeguandole ad ogni situazione specifica presa in esame.
Tattva è il termine sanscrito che è stato tradotto con «principio di realtà». Per afferrare la portata di quanto viene esposto nel nostro testo giova prendere le mosse dall'uso che di questo vocabolo viene fatto da parte del sistema sâmkhya, che si occupa dell'enumerazione delle categorie costituenti la realtà. Tali categorie vengono indicate con il termine generico tattva, che vale propriamente «il fatto di essere quello». Si tratta di un tipo di categoria buona ad indicare una serie di manifestazioni riconducibili a un solo principio. Un tattva ha le seguenti caratteristiche: permane all'interno dell'ordine inferiore di dissoluzione cosmica, essendo riassorbito solo dal superiore; è sempre presente nei suoi kârya («determinati») di fronte ai quali si pone come kârana («determinante»); è onnipervadente, giacché è il terreno ultimo cui si possono ricondurre le varie manifestazioni di cui costituisce il componente principale. Così ad esempio il mondo fisico è detto terrestre non perché sia fatto solo di terra, ma perché la terra è il suo costituente principale. I costituenti della realtà sono secondo il sâmkhya venticinque. Anzitutto vi è il purusa, principio cosciente individuale assolutamente inattivo, indipendente e non coinvolto dal dispiegarsi del suo contraltare oggettuale, la prakrti (pradhâna), che nel suo stato immanifesto rappresenta lo stato di equilibrio perfetto dei tre guna (sattva, rajas, tamas). In seguito al suo perturbarsi, e alla conseguente rottura dell'equilibrio dei guna, si manifesta il suo ruolo di principio archetipo, di scaturigine dei nomi e delle forme. Da essa procedono quindi gli altri tattva. Anzitutto vi sono tre tattva preposti alle funzioni mentali: buddhi, che soppesa le alternative ed opera le scelte, ahankâra, il senso dell'io cui è legata l'identità personale, manas, il senso interno che coordina e organizza le percezioni sensoriali. Concludono la serie venti tattva divisi in quattro gruppi di cinque tattva ciascuno. Il primo gruppo è quello delle facoltà di percezione sensoriale (capacità olfattiva, gustativa, visiva, tattile e auditiva). Esso ha la sua origine nell'ahankâra in cui predomini il sattva. Il secondo gruppo comprende le cinque facoltà conative, prodotte dall’ahankâra in cui predomini il rajas (capacità fonatoria, di manipolazione, di locomozione, di escrezione, di godimento). Il terzo gruppo non è più costituito da facoltà o poteri, ma dai cinque elementi sottili, prodotti dall’ahankâra in cui predomini il tamas. Sono detti tanmâtra, letteralmente «solo quello», e costituiscono l'elemento generale comune alle percezioni sensoriali particolari di una stessa specie (suono in quanto tale, tatto in quanto tale, forma in quanto tale, sapore in quanto tale, odore in quanto tale). Il quarto gruppo infine comprende i cinque elementi grossolani (mahâbhûta), ciascuno procedente da un tanmâtra, nell'ordine su esposto: âkâsha (spazio), vâyu (vento), tejas/agni (fuoco), âpas (acqua), prthivî/bhûmi (terra). Nelle scuole shaiva specialmente kâsmîre i tattva saliranno a trentasei (ovvero trentasette, riconoscendo un paramashiva al di sopra di Shiva), modificando però sostanzialmente la funzione di prakrti. Si noti come nel sâmkhya lo status ontologico del purusa e della prakrti sia superiore a quello degli altri tattva. Si è quindi licitati a stabilire una gerarchia che vede in grado discendente prakrti/pradhâna come «principio archetipo», tattva come «principio di realtà» dipendente da esso e i mahabhûta come «elementi grossi». Procedendo nella lettura del nostro testo apparirà con chiarezza come tattva venga usato ad indicare solo i cinque mahâbhûta. Ciò non costituisce tuttavia ragione sufficiente a ritenere la sostituzione mahâbhûta = tattva come puramente sinonimica. Infatti la complessa serie di corrispondenze (con tipi di respiro, colori, forme, organi ecc.) che si scoprirà legare âkâsha ecc. con altri elementi del macrocosmo e del microcosmo nel corso dell'esposizione dello svarashâstra consente di affermare che i cinque tattva del nostro sistema costituiscono qualcosa di più raffinato ed elaborato che non i cinque mahâbhûta del sâmkhya.
Tecniche ulteriori: revocazione dell'ombra.
Tecniche ulteriori, in cui si prendono in esame segni di vario genere sul corpo del consultante, sono perlopiù limitate a sintomi di morte (arista) e si presentano come comuni alla letteratura più propriamente medica.
Un terzo tipo di analisi si basa sull'esame di una figura evocata chiamata genericamente «ombra» (châyâ), ma che indica in realtà probabilmente un caso di persistenza (con i colori complementari) dell'immagine di una forma fissata in precedenza. Tale modello trova un parallelo in ambito purânico. Vediamo di che si tratti.
Ai nn. 351-361 la pratica della meditazione sulle forme evocate di Shiva è considerata così potente da equiparare chi la esegua per lungo tempo con zelo alla figura divina stessa. Dopo l'inserimento di uno shloka a carattere parenetico e declaratorio (355) si introduce nei seguenti (356-361), apparentemente senza soluzione di continuità, una tecnica che si basa sull'osservazione dell'ombra (châya, 360 sg., termine che compare già in 352). Giova soffermarsi brevemente sulla pratica descritta al n. 352 sgg. (e sviluppata in 356-361) onde glossarla. Il praticante (ossia colui che intenda conoscere il termine concesso alla propria esistenza, e per far ciò si serva della tecnica di divinazione qui esposta) deve ritirarsi in un luogo appartato e mettersi col sole alle spalle, scegliendo l'ora del giorno opportuna di modo che la propria ombra venga proiettata davanti a lui. Concentratesi sulla zona del collo nell’ombra egli deve successivamente ripetere centootto volte un mantra (il che gli occuperà approssimativamente 3 minuti secondi per 108 = 5 minuti primi e 24 minuti secondi, arrotondabile a 5 minuti primi e 1/2) e levare poi gli occhi al cielo. A questo punto otterrà la visione della divinità invocata. Non pare inopportuno imputare a causa dell'evocazione della figura percepita il ben noto fenomeno della persistenza dell'immagine. Il soggetto fissando la propria ombra a terra si trova in una condizione di intensità di illuminazione tale da permettere la doppia visione, quella scotopica o crepuscolare legata ai bastoncelli e quella fotopica o diurna legata ai coni. Si ricorda che ogni tessuto conduttore (nel nostro caso coni e bastoncelli appunto) risponde allo stimolo specifico (nel nostro caso luminoso) con un'eccitazione che costituisce e veicola il messaggio tramite catena neuronica. La cellula sottoposta ad eccitazione attraversa un periodo detto refrattario in cui non può essere eccitata di nuovo. Dal momento che la percezione luminosa segue con una certa inerzia lo stimolo fotico è possibile che si crei un'immagine postuma positiva. Di più, può essere chiamato in gioco anche il fenomeno del contrasto successivo. Se si fissa per qualche tempo un disco rosso, e poi si sposta lo sguardo su una superficie bianca, si ha la percezione di un disco verde, il colore complementare. Questa è l'immagine postuma negativa che dura qualche secondo. Giusta l'ipotesi della desensitizzazione dei recettori accade che quando il soggetto passa a fissare la superficie bianca, che riflette tutte le radiazioni dello spettro, i recettori del rosso vengono meno stimolati. In tal caso il soggetto ha una sensazione cromatica di verde e non di bianco, quale si avrebbe se tutti i recettori fossero ugualmente eccitati. Nel caso di una visione su bianconero l'immagine postuma negativa può essere dimostrata fissando per qualche tempo un oggetto luminoso. Se ora si fissa una superficie bianca omogenea (nel nostro caso lo schermo celeste) l'oggetto che prima aveva stimolato la retina appare grigio sullo sfondo bianco, ossia con luminosità inferiore. Si osservi che quanto detto qui consente forse di spiegare perché mai l'immagine evocata in cielo possa apparire multicolore. Si può immaginare infatti con una certa verosimiglianza che il terreno sul quale è proiettata l'ombra del meditante sia ornato di yantra e mandala colorati. La trasparenza dell'ombra permette di percepire, pur diminuite d'intensità, le forme e i colori (in forte contrasto con la zona circostante l'ombra che si trova in piena luce solare) Lo spostamento dello sguardo sulla volta celeste diurna consentirà per breve tempo di percepire la persistenza dell'immagini con i colori complementari.
Dalle caratteristiche di quest'immagine sarà possibile arguire il periodo di vita ancora a disposizione. Il termine già introdotto di «ombra» (châya) è riservato al periodo in cui effettivamente il praticante fissa l'immagine proiettata davanti a sé dal proprio corpo. Ma l'immagine evocata in cielo è indicata con un altro termine: rûpa «forma, modo di presentarsi di qualcosa», che ne indica la diversità rispetto all'ombra vera e propria. Si tratta, come s'è detto, di un'immagine virtuale, che non corrisponde cioè ad un oggetto effettivamente in contatto con l'organo visivo nel momento in cui è percepito, ma che è generata dalla persistenza dell’immagine reale di un oggetto percepito immediatamente prima. Tuttavia una pratica siffatta è ormai nota con il nome di châyopâsana (termine adoperato da Muktibodhananda che si può rendere con «evocazione rituale dell'ombra»).
Pratiche consimili sono rinvenibili in Shivapurâna V 25.17 sgg., ove tra i segni di morte si elenca l'incapacità di scorgere il riflesso di sé in acqua, olio, burro chiarificato o specchi. In questi casi, come nell'eventualità di un'immagine distorta, il termine di vita concesso è di sei mesi (versi 17 sgg.), che si riducono a uno qualora si verifichi una visione acipite dell'ombra (châyâ) o nel caso che quest'ultima non venga percepita affatto (verso 19). Anche la Carakasamhitâ tratta dei segni concernenti l’ombra (pannarûpa «ciò che è privo di colore»). II medico accorto deve evitare il paziente dotato di un'ombra (châyâ, che qui vale però più propriamente il colorito genetico della pelle e la sua lucentezza) che presenti deformità se veicolata da mezzi quali la luce lunare, solare, di una lampada, l'acqua o uno specchio. Successivamente si distingue un tipo di ombra in senso lato (praticchâyâ, propriamente «riflesso») determinata dall'immagine riflessa in acqua, specchi, luce solare ecc., conformemente alla misura e alla forma dell'individuo, dall'«ombra» in senso stretto (châyâ), costituita all'immagine basata sulla complessione (varna, letteralmente «colore») e luminosità (prabhâ) dell'individuo. Si noti che nessuno di questi due termini tecnici indica in questo contesto l'ombra in senso fisico. Del resto il termine presenta un coacervo di significati anche nella nostra lingua, dacché indica in primo luogo la zona di oscurità prodotta da un corpo opaco che si trova contro luce, nonché la parte di un corpo solido che non è colpita direttamente dalla luce, per tacere dei significati traslati. Occorre prendere atto che châyâ oltre a tutti questi significati veicola anche quelli individuati da «riflesso», «immagine virtuale», «aura», e altri ancora. Tornando alla Carakasamhitâ, vengono elencati cinque tipi di châyâ, uno per ciascuno dei cinque mahâbhûta. Il senso qui è precisamente «luminosità», dacché le immagini ivi descritte sono dotate di colori che le distinguono le une dalle altre (ma anche di caratteristiche palpabili quali l’untuosità, il che non è applicabile alla «luminosità» più che all’«ombra»). Successivamente châyâ è specificata come un'aura che si scorge da vicino e pervade la figura, prabhâ («splendore, luminosità») come un'aura che si scorge da lontano e illumina la figura. Infine si proibisce al medico di occuparsi di un paziente il quale proietti un'ombra invertita, rattrappita o senza testa.
Quanto detto sin qui consente già di arguire che scopo della pratica è non solo individuare le possibilità di riuscita o di sconfìtta di un'iniziativa specifica, quanto consentire la messa in opera di correttivi a condizioni negative e di corroboranti a condizioni favorevoli. Non si tratta di una semplice tecnica di divinazione in cui il futuro viene considerato ineluttabile, quanto di una valutazione probabilistica sull'esito degli eventi che cerca di mettere a disposizione dei metodi per modificarli a proprio favore.
Consultante, divinante, intermediario
Le figure che entrano in gioco nella pratica divinatoria sono, com'è solito, due: il consultante (prcchaka) ed il divinante (svarodayavid). A tratti sembra inserirsi un terzo personaggio, definito «messaggero» (dûta), il quale (anche sulla scorta di esempi simili nella letteratura medica) pare possa essere individuato come un tipo di intermediario tra i due (agendo per conto del consultante che sia impossibilitato a presentarsi di persona all'esame del divinante). Le caratteristiche del dûta, quindi vengono (con un processo di transfert) considerate legittimamente attribuibili alla situazione del prcchaka. In particolare al n. 135 il termine «messaggero» indica probabilmente colui che si accosta all'individuo che pratica la divinazione tramite lo svara per conto di una terza figura che per qualche motivo non lo può interpellare di persona. Ovvero può trattarsi del diretto interessato, che diventa «messaggero» (pur senza saperlo) in quanto il responso che lo riguarda è determinabile come positivo o negativo a seconda della direzione dalla quale egli provenga rispetto al tecnico dello svarashâstra: qualora egli si avvicini dall'alto, da sinistra o da davanti se per quest'ultimo sia attivo lo svara a sinistra; e dal basso, da destra o da dietro se per lui sia attivo quello a destra la risposta sarà di buon augurio, negativa in caso contrario. O ancora può darsi il caso che il «messaggero» veicoli un responso che riguarda non lui stesso ma il praticante della tecnica di divinazione. In assenza di ulteriori specificazioni restano aperte tutte queste possibilità di lettura, ed altre ancora che lo scrivente non ha saputo individuare. Tuttavia la lettura di dûta («messaggero») come intermediario tra il consultante e il divinante ha maggiori probabilità di essere quella giusta, specie se si tengono in conto passi analoghi nella letteratura medica ove è presente la figura di un dûta. Questo personaggio si presenta a casa del medico per invitarlo a venire a visitare l'infermo che non possa lasciare, costretto dalla malattia, la propria dimora. Il medico accorto riuscirà a capire se è il caso di accettare il malato come proprio paziente in base all'esame dei segni veicolati dal dûta: la somiglianza con la pratica divinatoria è sorprendente.
II divinante ascolta il quesito del prcchaka ed esamina la propria situazione quanto allo svara, per individuarvi segni favorevoli o contrari. Nel caso in cui si presenti un dûta, si considerano le caratteristiche esteriori di questo personaggio, ovvero si rapporta la direzione da cui egli proviene, o la sua posizione, all'analisi della collocazione lateralizzata dello svara del divinante, e del tipo di tattva in esso attivo.
Nella quasi totalità dei casi quindi il divinante si limita a raffrontare il quesito con la situazione del proprio svara. La sua funzione è quindi di conoscitore di una tecnica di analisi ristretta alla propria persona.
Ma vi sono casi in cui l'esame viene compiuto sullo svara del consultante. In tale occasione si presume che il divinante interroghi il proprio patrono per dedurne le condizioni di flusso respiratorio. Questo può essere considerato valido soprattutto nei casi in cui si voglia stabilire l'esito di una battaglia. In tale circostanza è poco probabile che lo svarodayavid si trovi sul campo, e sarà il re o il comandante militare ad esaminare il proprio svara (in ciò preventivamente istruito da persona competente) per trarne gli auspici. Il quadro tuttavia si complica quando entri in gioco un esame a cui prendono parte i due contendenti: lo sthâyin (chi difende il proprio territorio) e lo yâyin (l'invasore). Si dovrà allora supporre o che l'analisi sia compiuta da ciascuno di essi, o da un divinante super partes, o da due svarodayavid al servizio dei due. Anche ammettendo ognuna di queste possibilità come valida rimangono dei problemi. f|j Su ciò si veda il n. 254. Ivi ovviamente il respiro lunare o solare sono da intendersi come riferiti allo sthâyin e allo yâyn. Il testo non affronta il problema di cosa accadrebbe se si verificasse una compresenza delle due condizioni favorevoli (sthâyin con respiro lunare e yâyin con respiro solare): forse si arriverebbe ad un armistizio, e a una mutua rovina in caso di pari condizioni. sfavorevoli. Potrebbe anche darsi però che i due respiri vadano riferiti al divinante, ma è improbabile che costui potesse effettivamente trovarsi sul campo al momento dello scontro (yuddhakâle) ed essere consultato dai contendenti, unica costruzione del resto possibile se si vuole eliminare il rischio di un'impossibilità logica. E’ più probabile che - se si accetta l'ipotesi di attribuzione del respiro al divinante (com'è più spesso il caso) anziché al consultante - due fossero i divinanti, uno per parte. Ma allora di nuovo si ripresenta il problema suaccennato: che accade quando ciascuno dei due riscontri i soffi di buon auspicio (o, il che è lo stesso, di cattivo) per il proprio cliente? Evidentemente la possibilità di indizi contrastanti non viene presa in seria considerazione: la presenza di un segno chiaramente favorevole o sfavorevole non ammette sintomi in contrasto ad essa.
Prospetto riassuntivo del testo
Per comodità di consultazione si da una schematica indicazione del contenuto dello Shivasvarodaya.
Sloka
1-3 introduzione del dialogo
4-9 i tattva
10-12 lo svara
13-14 caratteristiche del discepolo ideale
15-17 elogio dello svara
18 la fisiologia simbolica
19-24 siddhi e poteri vari che si possono attingere con la pratica dell’esame dello svara
25-30 superiorità dello svarashâstra su altre dottrine
31-41 le nâdî
42-48 i soffi vitali
49-61 idâ, pingalâ, susumnâ: le tré nâdî principali e la loro simbologia
62-149 ritmo mensile e circadiano di predominio dei diversi tattva nel respiro: indicazioni divinatorie desunte da esso
150-181 ulteriori tecniche divinatorie ed approfondimento della fisiologia simbolica: forme, colori, sapori ecc. legati al soffio vitale
182-185 simbologia astrale legata allo svara altre tecniche divinatorie legate ai tattva
201-204 ancora la simbologia astrale: i tattva e le case lunari 205 tecnica posizionale
206-208 ancora l'elogio dello svara
209-214 divinazione basata sui bîjamantra: siddhi risultanti 215-217 la conoscenza dei tré tempi (passato, presente e futuro)
218-244 divinazione basata sul prâna
245-265 tecniche per conoscere ed influenzare l'esito di una battaglia
266 antomanzia
267-271 elogio del soffio
272-274 la sconfitta di Yama
275-285 tecniche di seduzione
286-299 tecniche di fertilità
300-314 possibilità di predire l'andamento dell'anno in cor¬ so, specialmente per quanto riguarda il raccolto
315-350 segni di guarigione e di morte, legati al prcchaka e al dûta,
351-361 evocazione dell'ombra
362-369 ancora i segni di morte
370-372 rimedi
373-374 elogio delle nâdî
375-388 puraka, kumbhaka, recaka
389-395 elogio della pratica della conoscenza dello svara
I collegamenti possibili dello Shivasvarodaya con altri testi sono costituiti a) da riferimenti espliciti o facilmente identificabili, b) dalla condivisione implicita di un terreno concettuale comune, e) da congetture.
Il significato e il contenuto speculativo delle tecniche
Non pare inutile introdurre una discussione sul significato delle tecniche descritte nello Shivasvarodaya e sul tipo di contenuto speculativo che sta loro alla base.
Per quanto riguarda uno dei presupposti che fondano la tecnica di divinazione tramite lo svara, ossia l'importanza attribuita alle direzioni dello spazio e alla lateralizzazione del corpo nelle sue parti destra e sinistra, si possono individuare alcuni possibili antecedenti di epoca vedica.
Un tipo di rituale prevede che si ponga al fuoco un ramoscello dì legna verde ovvero un pezzetto di spago: la direzione verso la quale si torcerà l’oggetto indicherà buoni o cattivi auspici. Un altro metodo consiste nel porre in equilibrio sul proprio capo un ramo e trarre gli auspici a seconda del lato dal quale cadrà: lampante la corrispondenza con lo Shivasvarodaya (265 sg.), in cui si adopera un fiore che viene fatto cadere di mano.
Altre due tecniche in cui il segno è direzionale sono da porre in rilievo per un motivo ulteriore: oggetto della divinazione è la sorte di una battaglia, tema che tanta parte gioca nello Shivasvarodaya. Nel primo caso si recitano due inni (Atharvaveda IV 31 e 32 = Rgveda X 84 e 83) a carattere imprecatorio indirizzati alla collera personificata e divinizzata (manyu), e nel contempo si da fuoco a un fascio di erbe impregnate di olio di ingida: la direzione del fumo indicherà l'armata vittoriosa. Nel secondo si recita un inno mentre vengono disposte su di un braciere le estremità di tre corde d'arco (l'arma più nobile) che si ripiegheranno sotto l’azione del fuoco. Il segno è divinato esaminando la direzione verso la quale tale torsione si verifica. Il rito tuttavia contiene implicazioni più complesse. Delle tre corde (sostituibili con steli di giunco) quella di mezzo rappresenta la morte, le altre due sono le due armate contrapposte. Se durante la torsione una delle armate passa sopra la morte sarà vittoriosa, se è la morte a passare sopra una di esse indicherà sconfitta. Di più: a seconda se la sommità, la parte mediana o quella terminale del fuscello si torcano verso l'alto, saranno gli ottimati, la classe media o la plebaglia a soccombere nella lotta.
Quest'ultima precisazione introduce un nuovo campo d'indagine: la previsione della sorte di questo o quel combattente. Secondo un'altra tecnica il comandante deve passare davanti alle truppe schierate recando in mano un catino pieno d'acqua. Dovrà scartare i soldati di cui non riuscirà a percepire il riflesso sulla superficie del recipiente, apparentemente perché, facendo difetto la loro immagine, la loro stessa incolumità è compromessa. Ma si può altrettanto correttamente intendere che, non riuscendo a scorgere il riflesso dei soldati, il comandante non dovrà dare inizio alla battaglia. Si può fare riferimento a una formula di esecrazione vedica in cui si augura a un nemico di non gettare più ombra, intendendo l'ombra come caratteristica essenziale della persona sana e viva, e l'assenza di essa come individuante chi è morto o sta per morire, esattamente come nello Shivasvarodaya (351-361). è evidente che nel rito precedente del catino pieno d'acqua davanti alle truppe schierate il riflesso è equiparato all'ombra, come in certa misura accade nello Shivasvarodaya, nella Carakasamhitâ e nello Shivapurâna. La sua assenza indica dunque morte più o meno prossima. Non è forse del tutto fuor di luogo richiamare la troppo nota leggenda del folklore dell'Europa orientale secondo cui i vampiri, morti che paiono vivi, sono identificabili tra l'altro dal fatto che non appaiono riflessi negli specchi e non proiettano ombra sul terreno.
Infine si può citare un tipo di «divinazione simulata» che si compie durante i riti di intronizzazione regale. Si tratta di una partita ai dadi, in cui il futuro rè gioca e vince (usando evidentemente dadi truccati all'uopo) contro un sacerdote, un guerriero ed un mercante. La vittoria è interpretata come constatazione del diritto assoluto di proprietà del sovrano sui beni e sulla persona dei sudditi, di cui essi continuano a disporre per sua graziosa volontà. Forse una pratica di tal genere può gettare luce sul senso non troppo chiaro di un passo dello Shivasvarodaya (269), in cui la partita ai dadi può - come qui - assumere valore simbolico. Non c'è neppur bisogno di ricordare che la causa prima della spaventosa guerra del Mahâbhârata è offerta dalla partita ai dadi tra Yudhisthira e Shakuni. Il legame tra potere e gioco d'azzardo si ripresenta con insistenza.
Se si considera la questione dei procedimenti mentali che stanno alla base delle tecniche divinatorie dello Shivasvarodaya alcune osservazioni si impongono.
L'espediente adoperato per escludere il caso dalla trama degli avvenimenti, consentendo così il massimo rigore possibile nelle previsioni, è costituito dal concetto di retribuzione dell'azione (karman). In realtà neppure i fatti particolari da interpretare sono di ordine aleatorio: nella prospettiva indiana tutto è razionale e prevedibile, occorre solo trovare un mezzo per percepire l’interò disegno. La divinazione non è un tentativo d'interpretazione e razionalizzazione successiva di fatti di per sé casuali: è al contrario l'acquisizione o la scoperta di un codice di decrittazione, che valendosi di omologie e corrispondenze fra i vari elementi del sistema svela il funzionamento della legge di retribuzione delle azioni.
Se si vuole rinvenire un parallelo a questo tipo di costruzione lo si deve cercare nelle letterature soteriologiche (moksashastra) delle scuole non dualiste. La liberazione (mukti) è ivi (pur con diverse sfumature in scuole «filosofiche» come il kevalâdvaitavâda o teistiche come gli orientamenti non dualistici shaiva) concepita non come la conquista di una nuova e perfetta condizione, raggiunta a prezzo di sforzi di tipo gnostico o ascetico, bensì puramente come la scoperta (in termini saiva il «riconoscimento» o pratyabhijnâ) di uno stato di pienezza ed autonomia (kaivalya, svâtantrya) esistente da sempre e per sempre, ma velato nella coscienza quotidiana del soggetto percipiente ordinario.
Allo stesso modo la possibilità di predire eventi futuri si rivela non come un tentativo intellettuale di scorgere nessi (impercepibili ali'uomo comune) tra eventi casuali e futuri sviluppi di una situazione esistente, ma piuttosto nei termini di un'attenta lettura dei dati di base di un ragionamento inferenziale (paksa), che alla luce di un indizio in essa contenuto (linga) possono condurre alla scoperta di una realtà non immediatamente evidente che era l'oggetto di conoscenza da attingere (sâdhya).
In ambito soteriologico il paksa è la condizione quotidiana di legame (bandha), il linga è offerto dalla parola autorevole dei testi (shabda) e il sâdhya è la condizione liberata (moksa). In àmbito divinatorio il paksa è l'insieme delle condizioni del consultante, il linga è l'insieme di tecniche padroneggiate dal divinante e il sâdhya è l'esito futuro della situazione di base del consultante (e dei sintomi in essa contenuti, che divengono linga solo se letti alla luce delle conoscenze del divinante).
Il valore del segno interpretato è quindi di tipo iconico piuttosto che simbolico. E il presagio è pertanto costituito da eventi talora regolari, conformi all’ordine normale del cosmo, talora irregolari: non è sempre e comunque un prodigio, un teras, come viene interpretato nel mondo greco e ancor più romano. Non si può sottolineare abbastanza la radicale alterità che separa un universo di segni assolutamente prodigiosi, come nell’antichità occidentale, dal tipo di segni indiani, che possono essere d'ordine normale o anormale, ma non sono comunque necessariamente teratoidi.
I segni «regolari», conformi cioè all’ordine normale del cosmo, saranno dati da una particolare configurazione fisiologica del soffio a destra o a sinistra, col predominio di questo o quel tattva, nell'ambito del ritmo circadiano e mensile. Si noti la grande varietà di configurazioni possibili. Essi hanno effetto buono o cattivo (legato al lato e al tattva corrispondente), comunque modificabile a proprio favore o alla peggio evitabile, e sono determinati da impressioni subconscie (vâsanâ) abbastanza forti da manifestarsi ma non altrettanto da non poter essere influenzate o temporaneamente obliterate.
I segni «irregolari», difformi dall’ordine normale del cosmo, saranno dati da una configurazione patologica del soffio. Essenzialmente sono riducibili a shûnyasvara, il soffio che fluisce in susumnâ per un periodo più esteso di quello (brevissimo) normale di alternanza tra una narice e l'altra, con in più spesso il predominio di un tattva particolarmente funesto come âkâsa. Hanno effetto sempre nefasto e inevitabile e sono determinati da vâsanâ così radicate e mature da non permettere di stornarle su di un'esistenza successiva procrastinandone il tempo di riattualizzazione, e tantomeno di mitigarne gli effetti nell'esistenza presente. Rientrano in quest'àmbito anche i segni di morte (arista) individuati analizzando caratteristiche corporee di vario tipo nel prcchaka o nel dûta. L'opera complessa di normalizzazione, omogeinizzazione e decrittazione di diverse classi di segni in un corpo organico, tale da permettere un lavoro di interpretazione sistematica, fallita in Grecia, appare invece sostanzialmente compiuta sul suolo indiano.
Due osservazioni conclusive: non è inverosimile che la tecnica basata sullo svara, giusta le corrispondenze riscontrate con la Carakasamhitâ, possa essere stata trasmessa all’interno di circoli medici prima di dar vita a una gilda di professionisti della divinazione. E ancora: la logica interna della legge del karman non consente di attribuire semplicisticamente il corso degli eventi alla volontà degli dèi, che al più risultano puramente garanti del corretto svolgimento del processo.
Caratteristiche del discepolo:
13. La buona fortuna risultante dal passaggio dell'aria attraverso le narici va conferita a un discepolo sereno, puro, virtuoso, concentrato sulla devozione per il maestro, di mente salda, riconoscente.
14. La conoscenza del passaggio dell'aria attraverso le narici non va impartita a un discepolo malvagio, villano, iracondo, non credente, violatore del talamo del proprio maestro, privo di qualità luminose, dalla cattiva condotta.
15. Ascolta tu, o Dea, quest'ottima conoscenza, che risiede nel corpo, esposta da me. Con la sua sola comprensione si produce l'onniscienza.
16. Nel passaggio dell'aria attraverso le narici sono contenuti i Veda e gli sastra. Nello svara è contenuta l'ottima scienza della musica. Nello svara è contenuto tutto il trimundio. Lo svara ha come modo proprio di presentarsi il Sé (âtman).
17. Chi si proclami conoscitore della sorte senza padroneggiare il passaggio dell'aria attraverso le narici è come una casa senza padrone, come una bocca senza shastra e un corpo senza testa.
18. Chi conosce le varietà delle nâdi, del prânatattva e di susumnâ priva di mescolanza con altro, costui va verso la liberazione.
19. Ciò che si rivela di buon auspicio è stato prodotto a causa della forza del vento, in ciò che è dotato di forma ovvero in ciò che è privo di forma. O Dea dal bel volto, alcuni dicono che la conoscenza dello svara è di buon auspicio.
20. Proprio dal passaggio dell'aria attraverso le narici infatti sono formate le parti dell'universo, la sua totalità ecc. Ed è lo svara in aspetto di Maheshvara che opera la manifestazione e la dissoluzione.
21. Non si è mai visto o sentito un segreto superiore alla conoscenza dello svara, una ricchezza superiore alla conoscenza dello svara, una conoscenza superiore alla conoscenza dello svara.
22. Si colpisca un nemico fidando nella forza dello svara, e così pure si affronti rincontro con un amico. Nella forza dello svara sta l'ottenimento della prosperità, la fama e ogni agio.
23. L'attingimento di favori di fanciulle si basa sulla forza dello svara. Grazie allo svara si ottiene udienza dal re. Con lo svara si ottiene la perfezione propria delle divinità ed il dominio proprio di un sovrano.
24. A causa dello svara si percorre ogni regione e nella forza dello svara sta tutto ciò che può essere fruito. Fondandosi sulla forza dello svara si può espellere ogni impurità.
25. O Dea dal bei volto, considera tutti gli shastra e i purâna, con la smrti e i trattati ausiliari al Veda: non vi è alcuna realtà superiore alla conoscenza del passaggio dell'aria attraverso le narici.
26. Nomi, forme ecc. sono tutti falsi, e in tutti risiede l'errore. Gli obnubilati sono illusi dall’ignoranza finché non sia conosciuto il fondamento ultimo della realtà.
27. Questa buona fortuna risultante dal passaggio dell'aria attraverso le narici è lo shastra migliore di tutti gli shastra. È simile allo stoppino di una lampada per illuminare quel vaso (ghata) che è l’âtman.
28. Non va svelata a chicchessia dietro richiesta. Perciò va conosciuta da sé stesso ovvero per il sé, da sé nel proprio stesso sé.
29. Non c'è giorno lunare, né asterismo, ne giorno della settimana, ne deità preposta a un pianeta, né pioggia o portento indice di calamità come una maligna congiunzione lunisolare ecc. che possano ostacolare lo studio di questa scienza.
Ossia: nessun fenomeno astronomico è di cattivo auspicio per chi intraprenda lo studio e la pratica dello svara. Altro possibile senso è: una volta intrapresi lo studio e la pratica dello svara ogni altro metodo di divinazione si rivela inutile.
30. O Dea, non vi è ovvero vi è mai stata perciò alcuna congiunzione astrale sfavorevole. Una volta ottenuta la pura forza del passaggio dell'aria attraverso le narici soltanto ogni risultato sarà di buon auspicio.
31. Posti nel corpo vi sono multiformi canali (nâdi) in grande abbondanza. Devono essere con ogni mezzo appresi dai saggi per conoscere il proprio corpo
32. Originantisi come polloni sopra la radice di un albero, situati nell'ombelico, settantaduemila canali sono posti nel corpo.
33. Posta nelle nâdî la potenza kundalî giace in forma di serpente. Radicati in essa si trovano dieci canali che procedono verso l'alto e dieci verso il basso.
34. Vi sono poi due coppie di canali procedenti obliquamente a due a due, per un totale di ventiquattro. Ma sono dieci i canali principali che veicolano i dieci soffi vitali.
35. I canali disposti obliquamente, verso il basso o verso l'alto sono associati al soffio (vâyu) e al corpo. Tutti quanti si trovano ad essere dotati di centri (cakra) nel corpo e a dipendere dal soffio vitale (prâna).
36. Tra questi dieci sono i principali, tra i dieci tre sono i più importanti: idâ e pingalâ e susumnâ come terza.
37. Gli altri sono gândhârî, hastijihvâ, pusâ, yasasvinî, alambusâ, kuhû e per decima samkhinî.
Vengono qui introdotti alcuni termini del lessico di quella che è stata definita variamente «fisiologia simbolica» ovvero «mistica» o ancora «sottile». Si tratta in sintesi del tentativo di descrivere fenomeni «spirituali» a partire dall'osservazione di fenomeni fisiologici. Si deve tuttavia cercare di sfuggire alla diffusa tentazione di trovare puntuali corrispondenze di ciascun termine con fenomeni osservabili con i moderni metodi sperimentali di laboratorio. Ciò è possibile solo soggiacendo a un equivoco di fondo, che non rende giustizia né alla scienza occidentale, le cui acquisizioni in campo epistemologico hanno superato questo schematismo da tardo positivismo, ne alla sagacia dei maestri indiani antichi, che oltre a fornirci una descrizione simbolico-operativa di un cammino mistico hanno provveduto a confondere il tutto con una sovrapposizione di simbolismi spesso gratuiti, che spesso hanno il solo scopo di celare il vero significato degli insegnamenti al non iniziato.
38. Idâ è situata nella parte sinistra della spina dorsale, pingalâ è tramandata trovarsi in quella destra, e susumnâ nella regione mediana di essa. Gândhârî si trova nell’occhio sinistro.
39. E hastijihvâ è in quello destro. Pusâ è nell'orecchio destro, yashasvinî è nell'orecchio sinistro. Nella bocca poi c'è alambusâ.
40. Kuhû sta nella regione dei genitali e shamkhinî in quella dell'ano. Così, avendo occupato ciascuno un'apertura del corpo, sono collocati i dieci canali.
41. Pingalâ, idâ e susumnâ sono poste nel canale di passaggio del soffio vitale (prâna). Questi dieci canali poi sono posti nella regione mediana del corpo.
42. Questi erano i nomi dei canali. Ora esporrò quelli dei soffi vitali: prdna, apdna, samdna, uddna e vydna.
43. E poi vi sono nâga, kûrma, krkala, devadatta e dhananjaya. Prâna risiede sempre nel cuore, apâna nella zona dell'ano.
44. Samâna sta nella regione dell'ombelico, udâna passa nella zona centrale della gola, vyâna pervade interamente i corpi. Questi sono i dieci soffi vitali principali.
45. Sono stati esaminati i cinque soffi vitali da prâna in poi. Vi sono ora i cinque da nâga in poi. Esporrò ora le posizioni di questi cinque.
46. Nel vomito si presenta nâga; nello sbattere le palpebre si riconosce kûrma. Krkala è conosciuto in seguito all'aver sternutilo e devadatta si manifesta nello sbadiglio.
47. L'onnipervadente dhananjaya non abbandona il corpo neppur quando è morto. Questi dieci soffi vitali che appaiono come la vita vagano in tutti i canali.
48. Il saggio dovrebbe percepire che il flusso dei soffi vitali nel centro del corpo si manifesta grazie ai tre canali idâ, pingalâ e susumnâ.
49. Idâ si sa esser posta a sinistra della spina dorsale e pingalâ a destra. Il canale idâ è posto a sinistra e pingalâ è opposta ad essa.
50. In idâ risiede la luna e in pingalâ il sole. Susumnâ è in forma di Sambhu, il cui modo proprio di presentarsi è l'oca selvatica (hamsa).
L'«oca selvatica» (hamsa) è un animale che riveste caratteristiche di purezza (è legato al colore bianco) e di sacralità (veicolo dei gemelli divini Ashvin e successivamente del demiurgo Brahmâ). Dal punto di vista del significante viene simbolicamente interpretato secondo una paretimologia che lo vuole formato da ham (per aham, postulando un'elisione iniziale), pronome di prima persona singolare, più sa, base del pronome dimostrativo («io-quello»), ricomponibile nella forma alternativa so-ham («quello-io»), ove l'«io» indica il principio cosciente individuale e il «quello» la realtà ultima a un tempo trascendente e immanente, che in tale formulazione si riconoscono identici. In quanto mantra (ham-sa) viene ritenuto strettamente collegato al flusso respiratorio, nelle sue due fasi di espirazione ed inspirazione.
51. Nell'uscita dell'aria è pronunciata la sillaba ha, l’entrata dell'aria è costituita dalla sillaba sa. La sillaba ha ha la forma di Siva, la sillaba sa è detta essere la Shakti.
52. Il flusso nel canale di sinistra è la luna che risiede in forma di Shakti. E il flusso nel canale di destra è il sole in forma di Shambhu.
53. Quel dono che durante l'inspirazione, che appare come la sillaba sa, dai saggi sia invero offerto, possa valere in questo mondo dei viventi decine di milioni di decine di milioni di volte tanto.
Ossia: il dono offerto durante l'inspirazione possa procurare a chi lo offre ricompense enormi in questa stessa esistenza attuale.
54. Un asceta raccolto e dalla mente unificata dovrebbe esercitare la percezione tramite questa via e ogni cosa dovrebbe da lui essere conosciuta come sicuramente contenuta in quel sentiero del sole e della luna.
Il «sentiero del sole e della luna» indica il flusso del respiro in idâ e pingalâ.
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