1. Vivere consciamente
2. Il Potere oltre la mente
3. Rinuncia: la via alla libertà
4. Le tre vie
5. La scoperta attraverso l'azione
6. L'uomo dall'azione illuminata
7. L'azione e oltre
8. Espansione
9. La conservazione dell'energia
10. Dipendenza e indipendenza
11. Afferrare gli elementi essenziali
12. La trasformazione interiore
13. Gli insegnamenti finali
PASSI SCELTI
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L’argomento di questa conversazione riguarda la capacità di divenire liberi, ovvero come sapere di essere senza paura, del tutto inattaccabili, capaci di trasmettere forza e speranza agli altri. Mi viene detto che il titolo «Rinuncia: la via alla libertà» sa di restrizione e di ascetismo, e susciterà l’opposizione di molte persone, che diranno: «Se lo Yoga si fonda su questo tipo di allenamento, non è certo meglio della rigorosa disciplina cristiana del Medioevo, e non mi sarà certamente d’aiuto!». Non condivido questa opinione: in effetti la parola «rinuncia», se non viene pienamente compresa, può avere un’accezione negativa; la parola «libertà» invece è come il mattino che avanza, inondando l’oscurità di vivida luce. Certamente vale la pena esplorare tutto ciò che conduce a un tale risultato.
La consapevolezza che tutti gli uomini sono fondamentalmente divini è uno dei doni che questo Yoga può dare a chi lo segue; questo significa che gli uomini sono sempre stati divini e sempre lo saranno. Il quadro che l’uomo generalmente presenta dei vari gradi di dominio o di inefficienza è il risultato dell’ignoranza. Non si tratta dell’ignoranza negativa del non conoscere per mezzo della mente, bensì di un’ignoranza originale, o nescienza, che è positiva ed è uno strumento divino, perché, mediante il suo potere, entra in gioco la creazione - il concetto di molteplicità - il mondo si manifesta e la realtà eterna non-dualistica compare come un’apparente molteplicità limitata dagli attributi. Nel mondo esterno questa molteplicità si manifesta sotto forma di nomi e forme, colori e sfumature di vitalità. Nel mondo interno, il mondo dell’essere soggettivo dell’uomo, essa si manifesta sotto forma di mente, sensi, emozioni, memoria e forza vitale. La rappresentazione unitaria di questa nescienza originale costituisce la radice fondamentale del mondo e produce l’alternarsi di piacere e dolore, di odio e amore; in sostanza di tutte le attrazioni e repulsioni che compongono il fenomeno che in sanscrito viene chiamato samsâra, o cosa in movimento: il mondo.
Per quanto riguarda l’uomo, lo strumento che lo introduce nel vortice dell’esistenza, e ve lo mantiene, è la mente, il dettaglio più importante di questa rappresentazione magica. Secondo la filosofia Vedânta, la mente, o antahkarana, è l’organo dell’attività interiore, in contrapposizione al corpo, che rappresenta l’organo dell’attività esterna: essa è una macchina per registrare, accumulare ed esaminare. L’attività più importante della maggior parte delle persone durante tutta la vita consiste nel ricevere e incamerare, attraverso la mente, impressioni, paure e desideri. Gli esseri umani si sono identificati con queste sensazioni, dalle quali sono governati inconsapevolmente. Tali impressioni, paure e desideri alterano le relazioni col mondo esterno, fino a che non siamo riusciti ad apprendere la scienza spirituale con cui poterli neutralizzare. La realtà suprema non può essere descritta con il linguaggio degli uomini; può essere chiarita solo in termini relativi. Essa è immutabile e pervade, non identificata, l’intero creato: prima, dietro, sopra, sotto e dentro. Anche queste parole sono un prodotto della mâyâ o agente della molteplicità; tuttavia esse disegnano un quadro mediante il quale l’Intero può essere teoricamente compreso grazie a una parte che è essa stessa immaginata. Nel regno della mâyâ, la realtà suprema è concepita come Coscienza, la quale, sempre uguale a se stessa, si manifesta a vari livelli nelle migliaia di forme che costituiscono il mondo empirico. Ciò significa che la Coscienza si manifesta progressivamente nella materia inanimata, nelle piante, negli animali e negli esseri umani. Essa viene identificata dall’uomo come autocoscienza, ed è conosciuta nella sua pienezza solo dai saggi che sono illuminati spiritualmente.
Questo è un altro modo per dire che la realtà - o ciò che viene chiamato il Sé, indiviso e sommamente indipendente da tutti i fenomeni, l’unico principio durevole - è sempre presente, e può essere rivelata al momento giusto nell’animo dell’uomo risvegliato, che la riconoscerà come sua natura fondamentale. Tuttavia egli apprenderà questa verità destinata a trasformarlo solo dopo che «si sarà sollevato dal suo mucchio di polvere, avrà riordinato la sua vita e guardato il Sole». Fino ad allora il Sole spirituale sarà nascosto e ricoperto dai fenomeni, in altre parole dalla mente, poiché questo potere - chiamato mâyâ - che divide l’unità in diversità, funziona ovunque possa arrivare la mente. Esso favorisce la molteplicità, e la mente, sua complice, lo riconosce e lo assapora.
Nel frattempo, lo spirito supremo, che pervade sia la mâyâ che la mente, sta sopra, sotto e dentro, sempre uguale a se stesso e auto-illuminato; ciò significa che la sua luce e la sua natura derivano unicamente da lui e da nessun’altra fonte indipendente. Tutto l’allenamento spirituale, sia esso yoghico o di un altro genere, ha come obiettivo di far retrocedere l’attività mentale o mâyica, di modo che il potere divino possa manifestarsi ed essere portato in primo piano per dominare infine la scena.
Udendo ciò potreste dire: «Se questo spirito è supremo e inattaccabile come viene sostenuto, come può essere sopraffatto e falsato da un potere inferiore, quale quello della mâyâ?». La risposta è che non viene sopraffatto, né distorto, né sminuito, poiché resta sempre intatto. Il Sé, la realtà suprema, non è cambiato o influenzato dalle nubi che lo oscurano temporaneamente. Quando le nubi si saranno diradate, brillerà nuovamente del suo splendore originale.
Il Sé supremo viene rivelato attraverso l’azione di poteri che si trovano oltre o sopra la mente, e che vengono attivati solo grazie alla disciplina e all’allenamento. Proprio come gli strumenti scientifici possono estendere la portata dei sensi fisici e renderli in grado di vedere oggetti finora sconosciuti, così queste facoltà interne e superiori possono essere concentrate, controllate e ampliate da pratiche tradizionali e dall’allenamento; in questo modo il Potere onnipotente può essere conosciuto direttamente. Questa affermazione non è un’opinione personale, bensì la testimonianza di saggi illuminati, del passato e del presente, alcuni dei quali sono ancora oggi tra noi.
Ora il ricercatore vorrà probabilmente porre un’altra domanda: «Qual è la ragione di una tale confusione cosmica? Perché deve esserci questa interazione di bellezza e di orrore, di gioia e di dolore?». Nel libro del Dr. Shastri, Il mondo dentro la mente, che è la traduzione parziale del grande classico, lo Yoga-Vâsistha, l’allievo, il principe Râma, fa proprio questa domanda al suo guru, il saggio rsi Vasistha.
Dimmi, o Saggio dalla mente elevata, come può la creazione derivare dal supremo Brahman, che tu rappresenti immobile nel vuoto? Qualsiasi cosa prodotta manifesta invariabilmente la stessa natura del suo produttore. La luce è prodotta dalla luce; il grano dal grano; l’uomo nasce dall’uomo. Quindi, ciò che è creato dallo spirito immutabile, deve essere inalterabile e spirituale per natura. Inoltre, lo spirito intelligente di Dio è puro e immacolato, mentre la creazione è impura e di materia grezza.
All’udire queste parole, il grande Saggio disse:
O Râma-jî, il Brahman è tutto purezza e non c’è nessuna impurità in lui. Le onde che si muovono sulla superficie dell’oceano possono essere sporche, ma non sporcano le acque degli abissi.
Il principe Râma replicò:
Signore, il tuo discorso è molto astruso e non posso capire il significato di ciò che dici. Il Brahman è privo di pena, mentre il mondo è pieno di pena. Non posso quindi comprenderti quando dici che questo è il frutto di Quello.
Il grande Saggio accolse nel silenzio le parole del principe Râma e pensò: non è colpa delle persone colte, se dubitano di qualcosa fino a che la spiegazione non dà loro soddisfazione, come nel caso del principe Râma. Per prima cosa l’allievo deve essere preparato e purificato mediante la meditazione, la devozione, con le tecniche Yoga e la pratica quotidiana della tranquillità e della padronanza di sé; solo allora potrà essere lentamente iniziato alla convinzione che tutto è Brahman. Quindi disse:
O Râma, alla fine di questi discorsi ti dirò se i corpi grossolani senza valore sono attribuibili o no al Brahman. Per il momento sappi che Egli è onnipotente, onnipervadente ed è Lui stesso tutto, allo stesso modo in cui un mago produce molte cose che per l’uomo sono apparizioni irreali.
Viene quindi detto al principe Râma che la conoscenza giunge solo attraverso la maturità interiore che si consegue con la disciplina e l’applicazione spirituale e non soltanto per mezzo di ciò che si apprende dai libri. Questo testo riporta molte discussioni simili tra il maestro e l’allievo e tutto il libro è pieno di bellezza e di insegnamenti.
Una volta il Dr. Shastri ebbe a dire che le domande «perché?» e «come?», al pari delle speculazioni sulle cause delle sofferenze, delle guerre, delle malattie, della tortura e di altri simili eventi, nascono a livello della mâyâ e non saranno mai risolte finché rimarremo su questo livello. L’uomo deve risvegliarsi, passare dall’autocoscienza alla coscienza universale, se vuole capire il mistero della trinità: l’inconscio, l’autocoscienza e la sovracoscienza. Quindi la risposta sembra essere che la parte non può conoscere l’insieme e che noi, parti immaginate, conosceremo la verità solo quando sapremo di essere noi stessi l’Insieme. Questo è lo scopo dell’allenamento nello Yoga, ed è anche lo scopo della vita.
Qual è il processo attraverso il quale l’uomo si risveglia, per passare dallo stato mâyico a quello eterno, dalla sensazione di essere una parte, alla conoscenza di stesso come facente parte del Tutto? Si dice che questa trasformazione viene ottenuta tramite la rinuncia. Qual è la vera rinuncia e a che cosa dobbiamo rinunciare? Soprattutto, perché la rinuncia è in grado di produrre tali cambiamenti interni?
La rinuncia è tradizionalmente ritenuta essenziale alla crescita. Essa è infatti sinonimo di trascendenza, parola che ha implicazioni molto più ampie e vitali della rinuncia stessa. Per la maggioranza degli uomini, crescita significa acquisizione e conseguimento di scopi più elevati e di una più ampia conoscenza. Ma per il ricercatore spirituale crescere significa trascendere, passare attraverso la ricerca per ingrandire il dettaglio di un oggetto o di un concetto, fino alla conoscenza intuitiva di quella cosa attraverso il distacco, la purezza e la concentrazione.
Il valore e il significato di un oggetto o concetto supera sempre qualsiasi conoscenza empirica dello stesso, perché esso non sarà mai veramente conosciuto attraverso la valutazione delle parti che lo compongono. Voltaire ha detto che anche se un uomo avesse un migliaio di sensi, non si avvicinerebbe alla conoscenza dell’eterno, più di quanto non possa farlo un uomo provvisto di cinque sensi. La vera conoscenza non si ottiene raccogliendo una montagna di dati, ma grazie all’immersione della mente nell’oggetto che deve essere conosciuto. Questa impresa viene compiuta grazie alla meditazione e alla contemplazione: ponte sul quale gli uomini dovranno transitare, in cammino dal temporale e dall’irreale verso il reale.
Ma qual è il significato della trascendenza e come conduce alla libertà? Sebbene possa non apparire come un dato di fatto, è una caratteristica fondamentale dell’uomo la ricerca dell’universalità. Egli vuole tutto e lo vorrà sempre. Dapprima vuole tutto per se stesso. In seguito vorrà tutto per il tutto. Infine la comprensione del termine «tutto» subirà un cambiamento radicale, ed è a questo punto che egli trascenderà la mente e si libererà. Egli è anche contrario alla «ristrettezza», che interpreta dapprima come restrizione - del proprio scopo personale e del raggio d’azione mentale - ma in seguito si renderà conto che ciò è dovuto all’azione del suo Sé inferiore, il suo Io.
L’Io! Adesso che la parola è apparsa, e che il coniglio cosmico è uscito dal cilindro, faremmo meglio ad assegnargli il suo posto nella rappresentazione. L’Io, che è autoriferimento, viene considerato il principale nemico dell’uomo, il bastone tra le ruote, per così dire. Il suo trono è la mente, essa stessa è il campo sul quale verrà combattuta la battaglia per la liberazione e per la consapevolezza dell’immortalità. Non si può sconfiggere la mâyâ, o il senso di individualismo, con l’azione intrapresa nel mondo oggettivo; essa può essere affrontata solo sul piano mentale.
Uno scrittore ha detto che l’Io è come l’amante di un uomo che vive con lui una meravigliosa storia d’amore in grado di durare attraverso le successive incarnazioni e che lo comanda a bacchetta, mentre egli si sforza di esaudirne tutti i capricci. Secondo il nostro maestro, tuttavia, la ragione per cui l’Io esercita un tale potere sull’uomo, sia d’attrazione che di repulsione, è perché ha una duplice natura e modalità di azione. In senso più ristretto, l’Io può essere identificato con la mente e con il corpo, in quanto rimane attaccato al mondo e a tutto ciò che vi si trova. Ma nel suo aspetto più elevato, l’Io ospita un raggio della Coscienza suprema, che non è mai insensibile a queste cose e che può essere illuminata da quel raggio divino. Questa è la ragione per cui l’uomo nel suo intimo pensa, e con ragione: «Sono grande, più grande di quanto tu sappia». Egli lo pensa anche quando si dibatte per liberarsi da tentacoli, simili a quelli della piovra, del suo Sé inferiore. Ma la conoscenza, come sempre, gli verrà in aiuto, poiché, dopo essersi reso conto della dualità dell’Io, egli potrà usare il più elevato dei suoi aspetti per sconfiggere quello inferiore.
Secondo l’insegnamento dello Yoga, quando si considera un oggetto o un concetto, si è collegati a esso da un legame sottile. Questo legame sottile è il senso dell’Io. è la forma inferiore di identificazione che lega l’uomo agli oggetti e il suo potere di restrizione deve essere riconosciuto e superato prima che l’uomo diventi libero. Diciamo «riconosciuto» perché, a meno che egli non riconosca la restrizione, e il vantaggio di sfuggirle, il suo impulso a scappare non sarà duraturo.
Cento anni fa le persone viaggiavano a cavallo o in carrozza, ora viaggiano in aereo. Non hanno rinunciato ai cavalli e alle carrozze per conformismo: lo hanno fatto perché hanno trovato qualcosa di più comodo e veloce. Quindi non c’è nessun pericolo di un ritorno ai vecchi mezzi di locomozione. Lo stesso avviene per il desiderio di trascendenza. Prima che l’assalto all’Io abbia successo, dobbiamo essere certi di dirigerci verso uno stato superiore permanentemente più desiderabile di quello presente.
Ora si pone la domanda: «Tenuto conto della nostra ignoranza, come possiamo essere certi di ciò?». A questo punto, se il ricercatore vuole andare oltre, dovrà diventare allievo e sottoporsi all’allenamento. Si tratta di un passo serio, che chiamerà a raccolta tutte le sue facoltà. L’idea che sia necessario allenarsi per condurre un’esistenza spirituale è estranea all’Occidente, se si escludono gli specialisti come i preti e le suore; non solo è estraneo, ma viene solitamente considerato eccessivo e inutile. A nessuno può dispiacere di essere competente, ad esempio, nel campo dell’idraulica; in effetti per poter conseguire una tale abilità occorre sottoporsi ad un severo corso di istruzione, perché di solito nessuno possiede una naturale attitudine in tale ramo.
Ma quando si tratta di vivere in modo spirituale e di sapere come e a che cosa pensare, e al modo di favorire la propria crescita spirituale, è un’altra cosa. Si ritiene che tutti conoscano questa scienza istintivamente, il che è assurdo. La sola cosa che l’uomo conosce istintivamente, mentre lotta con la mente e con i sensi, è il potere forte delle vâsanâ, impressioni mentali subconscie, che producono continuamente nuovi allettamenti e vincoli per costringerlo in catene.
Chi vuole conquistare la libertà, non dovrà essere solamente aperto all’istruzione, ma dovrà anche contribuire alla supremazia spirituale sotto forma di reverenza e obbedienza. In tutte le scuole orientali lo scopo finale dell’allenamento è lo stesso: la libertà attraverso l’esperienza diretta della Verità. Ma prima che lo scopo finale sia raggiunto, ovvero, prima che avvenga la trasformazione dell’uomo individuale in essere universale, egli deve passare, di rivelazione in rivelazione, attraverso l’accettazione di certi fatti fondamentali. Per esempio, se l’allievo vuole procedere oltre, deve accettare due fatti preliminari, peraltro fondamentali, sui quali deve agire.
Si tratta dell’insegnamento universale impartito in modi diversi da tutti i guru, sia in Oriente che in Occidente, secondo il quale la Verità imperitura può essere rivelata solo in una mente immota. Una mente immota è tale quando permette agli oggetti o ai concetti di entrare e di dissolversi in essa, invece di andare alla loro ricerca e smarrirsi.
Il secondo fatto fondamentale non è così universalmente insegnato, ma è un punto cardinale di questo Yoga. Si ritiene che la Verità imperitura possa essere compresa solo da un cuore che abbia riconosciuto l’unità della vita e che veda l’intera creazione fondata sull’unico spirito e permeata da lui. Il nostro maestro ha detto che l’uomo è collegato a ogni pianta e a ogni stella, e che i suoi pensieri influiscono su tutto l’universo. In ogni caso, la verità dell’universalità della Coscienza deve essere accettata in teoria, prima di poter andare oltre.
L’allievo, dal momento in cui inizia l’allenamento, è messo di fronte a questi due fatti: essi sono fondamentali, vanno accettati lentamente e consapevolmente; il loro significato deve essere compreso, altrimenti nessuna meditazione, servizio o studio si svilupperà appieno. Entrambi questi insegnamenti assesteranno un colpo all’Io: infatti, se saranno seguiti con pazienza, causeranno la sua detronizzazione. La mente quiescente è un anatema per l’Io inferiore, che, come un’ape, non è mai soddisfatto di un solo fiore, ma continua a ronzare alla ricerca di nuovi profumi. Ci sono profumi ben più deliziosi e rari di quanto non possa immaginare, ma sfortunatamente non potrà accostarsi a loro, né li apprezzerebbe se vi accedesse. Ciononostante, l’Io inferiore organizza una strenua resistenza non appena l’allievo si avvicina alla pratica conscia per controllare e pacificare la mente e, per arrestarne il progresso, gli mostra il mondo con tutte le sue attrazioni. Dove si situa l’Io rispetto all’universalità? Esso sta all’erta, perché teme di incominciare a perdere i propri confini, come un’onda nell’acqua.
Ci si aspetta che l’allievo paghi il prezzo concordato in termini di ubbidienza e reverenza. La reverenza è quella qualità che impedisce di sminuire l’importanza del maestro e dei suoi insegnamenti. L’ubbidienza è l’accettazione immediata di qualsiasi cosa succeda. Se l’allievo paga questo prezzo, riceverà in cambio pratiche atte a risvegliare i due stati interiori preliminari ma essenziali: lo stato di armonia, quiete e distacco, che è simile a quello del tempo quando volge al bello, e lo stato di riconoscimento dell’essenza universale della Coscienza.
La libertà nascente viene pertanto acquisita dall’allievo mediante l’accettazione intelligente. Essa non è mai conseguita attraverso un cieco conformismo, per mezzo di un’ascesi eccessiva, o tramite la rinuncia fine a se stessa. Essa non sarà ottenuta appieno e l’allievo non sarà liberato fino a che ogni cellula del suo essere non desidererà quello stato. Egli non deve temere che questo climax lo investa, cogliendolo impreparato o titubante. Accadrà probabilmente il contrario: prima che discenda su di lui, l’allievo sarà assolutamente pronto a riceverla. Descriverò ora due esercizi generali per chi vuole fare una prova pratica dello Yoga. Il primo serve a calmare la mente.
Sedete per terra o su una sedia con la schiena ben diritta, ma non rigida. Rivolgete un saluto mentale a un’incarnazione di Dio o allo spirito astratto onnipervadente, inspirando ed espirando per alcuni minuti. Inspirate come se il respiro venisse dai piedi verso la testa ed espirate dalla testa verso i piedi. Immaginate che questo respiro abbia la facoltà di dissolvere tutti i pensieri, come un vento leggero scaccia la bruma. Quando sentite che la mente è calma, o più calma di prima, interrompete la respirazione e rimanete tranquilli, ma anche vigili, per un breve periodo di tempo. Quindi inserite nella mente una frase: prendetela in esame e concentratevi su di essa. Dovete scegliere accuratamente la frase prima di incominciare. Potrebbe benissimo essere quella che vi introduce al secondo esercizio e che suscita una sensazione di universalità. Per esempio: «Tutta la vita è una», oppure, «Ero, sono e sarò». Dedicate più o meno cinque minuti per riflettere sul suo significato, fate poi un altro saluto e mettete fine all’esercizio.
Il secondo esercizio è quello che apre il cuore all’universalità della Coscienza o Dio e alla conseguente unicità del tutto. Sedete calmi nella postura scelta: ora però la vostra mente deve essere pronta alla meditazione. Ditele: «Non ferirò nessuno col pensiero, con la parola o con l’azione. Gli altri sono me stesso», o «nessuno deve aver paura di me e non devo aver paura di nessuno», o «possano tutti ricevere da me del bene, possa io ottenere del bene da tutti». Meditate su questo pensiero per circa cinque minuti. Noterete che ogni idea presenta due stadi: «possano tutti ottenere il bene da me, e possa io ricevere il bene da tutti», « io perdono tutti, possano tutti perdonarmi». La seconda parte del pensiero è introdotta allo scopo di impedire all’allievo di darsi arie da gran signore! Il sentimento di essere un benefattore universale e la sottile soddisfazione che ciò produce significa una vittoria temporanea per l’Io che deve essere evitata a ogni costo: questo è un modo sicuro per farlo.
Questi esercizi ci potranno forse apparire troppo infantili o facili, ma non risulteranno tali dopo aver provato ad eseguirli. Vi renderete conto di quanta resistenza faccia la vostra mente, quando cercate di calmarla e di renderla duttile anche solo per pochi minuti. Molti capiranno quanto essi detestino di essere perdonati o aiutati soltanto quando dovranno usare l’immaginazione e il loro senso dell’umorismo per valutare ciò che provano nel secondo esercizio.
Se gli esercizi iniziano a dare un risultato, che dovrebbe manifestarsi sotto forma di un senso di sicurezza, pace ed espansione, allora potrete proseguire nella pratica della meditazione con il cuore pieno di speranza. Possa essere così.
7
L’azione influenza il nostro futuro, forse si dovrebbe dire «il futuro», quindi è molto importante per noi comprenderla correttamente. L’azione non è confinata all’organo esterno - il corpo - ma include anche l’attività dell’organo interno, l’antahkarana. L’autorità più elevata in materia di azione è la Bhagavad-gîtâ e non esiste altro libro in cui la psicologia dell’azione sia stata esaminata in modo più sottile ed esaustivo.
L’azione in sé non viene criticata nella Gîtâ o negli altri testi tradizionali dell’Adhyâtma-yoga. È solo quando l’uomo la utilizza come veicolo per i suoi desideri personali e per la liberazione delle sue vâsanâ, o tendenze latenti, che viene ammonito. Il principe Arjuna, nella Gîtâ, lungi dall’essergli richiesto di non agire, viene anzi invitato a farlo, e gli viene indicato come. Non è l’azione che intralcia, bensì l’idea di compierla. Fino a che vi identificherete con un’azione e con i suoi risultati, ne risulterete indeboliti, in quanto sarete esposti all’inevitabile succedersi degli eventi che l’azione stessa comporta. Inoltre questo senso di identità si contrappone direttamente all’insegnamento centrale dell’Advaita: la non identificazione.
Nel Visnu-purâna viene descritto come, nella notte dei tempi, i deva e gli asura (le forze della luce e dell’oscurità) si scontrarono in una furiosa battaglia. Alla fine tutti gli asura furono uccisi e rimasero solo i deva. Per molto tempo questi vissero una tranquilla vita di contemplazione, senz’ombra di discordia. In seguito il Signore cominciò ad agitarsi e si rese conto, di che cosa? Di essere soddisfatto di ciò che aveva creato? No! Si rese conto della mancanza di varietà, della monotonia, della scarsità di ricchezza dell’intero universo e cominciò ad esaminare il problema. Come conseguenza creò migliaia di nuovi asura; di modo che attraverso il predominio e la varietà del samsâra, fu nuovamente ristabilito il corso naturale degli eventi ed egli si dichiarò soddisfatto. Un’altra storia narra che i figli di Brahmâ, nati con sette menti, furono introdotti nel samsâra, rifiutarono di assumere un ruolo qualsiasi nella scena del mondo, sedendo in contemplazione, senza generare figli, né produrre opere. E nuovamente il Signore si dichiarò insoddisfatto e creò i grandi saggi, tra cui Vasistha e molti altri, che si sposarono e vissero una vita di grande valore sia cosmico che terreno.
La morale di queste storie è che l’azione non solo non viene considerata biasimevole né deve essere evitata, ma è ritenuta l’essenza pura del samsâra, che, dopo tutto, è di origine divina. Non solo l’azione deve proseguire perché il mondo continui, ma il Signore ha decretato che essa continuerà. Ognuno di questi punti è espresso in parole chiare nei primi capitoli della Gîtâ.
Ora, se come fino a qui è stato dimostrato, l’azione in quanto tale è incoraggiata dalla filosofia, qual è la difficoltà? Questa consiste nel capire qual è il modo corretto di agire e di considerare l’azione.
I cinesi, che capiscono a fondo le leggi che governano la retta azione, affermano che un giocatore avrà successo se scommette solo un gettone. Invece, se punta la sua cintura (il cui possesso è prezioso in Cina) diventerà nervoso, e se gioca dell’oro perderà il suo intuito. La sua abilità è la stessa in ogni caso, ma è distratto dal valore delle scommesse. Ciò dimostra che tutti coloro che danno importanza all’esterno (i frutti) si ritrovano senza risorse all’interno.
Secondo la Gîtâ, l’azione in se stessa non può condurre a Dio. Essa porta al karman (il legame di causa ed effetto) e al mantenimento del samsâra, e il karman conduce alle nascite e alle morti future, senza fine. Si può dire che lo Yoga altro non sia che il completamento o l’eliminazione del karman: è la scienza dell’azione purificata e illuminata, grazie alla quale la conoscenza viene svelata, il karman fermato e infine ridotto all’inazione. L’azione non conduce a Dio, cosa che avviene invece con l’offerta della stessa e dei suoi frutti a Lui. Quindi la maniera giusta e tradizionale di agire consiste nel farlo, ma senza che l’azione vincoli: ovvero come un agente o un attore, senza alcun senso di responsabilità o senza pensare «io sono l’autore di questa azione».
Quando le azioni sono eseguite in questo modo danno risultati, ma questi non coinvolgono l’uomo che le compie. Esse adempiono uno scopo cosmico, non individuale.
Se venisse detto in modo diretto che l’uomo deve intraprendere l’azione come un attore o un agente, e non come un istigatore, molte persone giungerebbero alla conclusione affrettata che sarebbe meglio assumere un atteggiamento irresponsabile e indulgente nei confronti della vita. Tuttavia, quando andiamo a teatro, non ci aspettiamo di vedere un attore attraversare con fare scomposto il palco per rivolgersi al pubblico dicendo: «Non biasimatemi, non l’ho scritta io la commedia». No, ci aspettiamo di vederlo recitare con intensità, come se stesse vivendo appieno la parte, e la stessa cosa vale per il grande pubblico degli dèi onnipotenti, che vuole vederci interpretare i nostri ruoli nel dramma cosmico, così come sono stati scritti, senza aggiunte né tagli.
La sensazione di essere l’autore di un’azione è collegata con il successo o il fallimento della stessa. È certamente così, ed è inutile chiedere a qualcuno di intraprendere un lavoro e allo stesso tempo di non curarsi dei risultati. Questa impresa potrebbe essere compiuta novantanove volte su cento, ma il fallimento della centesima evidenzierebbe l’errore dell’intero ragionamento. Il solo modo di compiere opere che non solo non vincolino l’uomo, ma che favoriscano attivamente il suo progresso, consiste nell’eseguirle come un sacrificio al Signore, considerando se stessi come Suoi devoti.
A questo punto le persone si diranno: «Sì, ma non tutte le azioni possono essere compiute così. Ci sono vari tipi d’azione. Qual è la risposta?»
Il Dr. Shastri ha spiegato che l’azione può essere inserita nelle seguenti tre categorie:
1) azione automatica e istintiva o reazione;
2) azione autocosciente o guidata dal desiderio;
3) azione sovracosciente o guidata cosmicamente.
Il tipo di azione inconscia e istintiva è la reazione comune a tutti i fenomeni - uomo incluso - agli stimoli, quali lo schiudersi dei germogli al calore e alla luce del sole, le fusa di un gattino vicino al fuoco, lo scacciare con la mano un moscerino, la digestione e così via.
Nella seconda categoria, le azioni guidate dal desiderio vengono intraprese per gratificare quel punto centrale della coscienza dell’uomo che egli chiama il suo sé. Il problema dell’azione giusta e della sua attuazione è confinato a questa categoria. Le azioni intraprese nella prima categoria sono troppo elementari e nella terza troppo impersonali ed elevate, perché possano inserirsi in esse sentimenti d’egoità. Il pericolo, nell’azione, sta nel credere da parte dell’uomo che egli stesso è l’autore dell’azione. Quindi la categoria d’azione guidata dall’ego e formulata dal desiderio è l’unica che dobbiamo prendere in esame. L’uomo deve imparare a controllare la sua azione, cioè quella del secondo tipo, per superarla e agire solo secondo le leggi della terza categoria. Quando ha imparato a farlo, viene definito servitore o strumento di Dio e grazie a lui il disegno cosmico può essere favorito.
Dedichiamo ora alcune parole al processo chiamato percezione, che precede ed è la causa di ogni azione. In termini generali, l’insegnamento yoghico afferma che l’uomo ha tre corpi: causale, sottile e fisico. Questi tre corpi corrispondono ai tre stadi della percezione. Il corpo causale è il conoscitore cosmico, il contenitore in sé di tutti i fenomeni sotto forma di seme. Esso non guarda verso l’esterno, bensì all’interno, su se stesso e su ciò che riflette. Il corpo sottile è l’organo interno, l’antahkarana, che percepisce questo seme causale come fenomeno, così come appare sul piano sottile, lo guarda esternamente, lo classifica, lo sceglie e reagisce a esso. L’organo fisico o esterno - braccia, orecchie, lingua e così via - porta a compimento, a livello fisico, le reazioni stimolate dal corpo sottile o antahkarana.
Ognuno di questi tre organi o corpi opera su un diverso livello della coscienza e percepisce gli oggetti nel momento in cui essi si manifestano in ognuno di questi livelli. In questo modo, la coscienza causale, che opera sul piano causale, vede gli oggetti nella loro forma di seme o causale. L’organo sottile o antahkarana, che opera sul piano sottile, vede gli oggetti nella loro forma sottile. Questa definizione permette di capire meglio ciò che i filosofi del Vedânta intendono quando dicono che le forze dell’antahkarana vanno verso l’esterno e prendono la forma dell’oggetto osservato. La parola «forma» in questo contesto non si riferisce alla forma fisica, ma all’aspetto più sottile dell’oggetto, la sua essenza, o la «forma» delle sue qualità. Dopo essere stato valutato dall’antahkarana, esso viene trasmesso all’organo esterno. L’oggetto viene quindi visto in termini di strumento fisico: forme, corpi, masse di materia, idee formulate e così via.
Il movimento della forza non ostacolata va all’esterno, dallo stato sottile a quello grossolano. Il movimento della forza controllata è un ritorno dal grossolano al causale. Questa è la via dello Yoga ed è in essa che si compie il ciclo del dispiegamento.
Dopo aver abbozzato superficialmente il processo della percezione, dobbiamo cercare di scoprire in che modo gli oggetti della percezione possono risvegliare il desiderio nell’uomo e portarlo all’azione. Un persona comune e incolta crede che il possesso di qualsiasi oggetto, fisico o sottile, conferisca più potere, maggiore libertà e indipendenza. Pertanto la possibilità di accumulare ricchezze materiali, o di possedere il potere sottile della conoscenza, fa sì che si verifichi nell’uomo il risveglio dell’antahkarana, che si manifesta attraverso la facoltà di fare castelli in aria, di progettare piani, di lavorare di immaginazione, che sono capacità definite con il nome di sankalpa. Egli quindi opererà in modo tale da produrre gli effetti desiderati. Tali effetti, ancorché prodotti, non sono tuttavia in grado di accrescere il potere e la libertà immaginati dall’uomo. Il risultato di un atto specifico potrà essere valutato sia in modo positivo che negativo; in ogni modo, da esso certamente discenderà un’ulteriore azione. Pertanto l’uomo, lungi dal godere di una maggiore libertà, è legato da vincoli più stretti che mai.
Tutto questo vale anche per chi percorre il cammino della ricerca spirituale. Dopo innumerevoli delusioni, egli si trova, consapevolmente o no, all’inizio di un percorso di autoallenamento. Giunge alla conclusione che non deve cercare di impossessarsi di qualsiasi cosa, deve invece scegliere ciò che considera buono per se stesso e per gli altri. Chuang Tzu descrive proprio questo stadio e dice che un buon inizio consiste «nel cominciare a cogliere in fallo le persone per la loro mancanza di carità e ostacolarle avvertendole dei loro doveri verso il prossimo». Quindi aggiunge: «Un po’ per l’eccessivo entusiasmo per la musica e un po’ a causa dell’eccessiva importanza che attribuiscono alle cerimonie, l’impero cade nella discordia». In altre parole, l’uomo si confonde e si rivolta contro se stesso.
Abbiamo mostrato che un uomo compie - e sempre dovrà compiere - delle azioni istintive, ma che grazie all’istruzione egli sarà in grado di operare delle scelte, attribuendo ad ognuna di esse il suo giusto valore. Egli impara a scegliere ancora di più nella seconda categoria e intraprende quelle azioni che secondo lui possono giovargli e, a uno stadio leggermente più elevato, giovare anche agli altri. A questo punto si presentano alcuni problemi di interferenza. Come potrà passare dallo stato meticoloso, pignolo, responsabile e affaccendato allo stato di irresponsabilità divina dell’uomo ideale della Gîtâ, l’uomo della quiete, della dedizione e tuttavia della percezione istantanea e della reazione? Il grande Râmânujâcârya dice: «La regola principale della Gîtâ è l’amore di Dio, uni-diretto e intenso, che non chiede nulla al di fuori dell’onore e della gioia di servirLo».
Questo stato di coscienza deriva direttamente dalla disciplina purificatrice dello Yoga. Quando l’allievo inizia a interiorizzarlo, mette automaticamente in atto i cambiamenti necessari nella sua vita attiva. Poi, a mano a mano che la visione invisibile del Supremo occupa sempre più il suo tempo, la sua mente e il suo cuore, egli scopre di compiere automaticamente le azioni che gli si presentano davanti e di offrire i loro frutti, buoni o cattivi, a Dio, continuando a concentrare il suo cuore e le sue preoccupazioni su di Lui. Verrà il tempo in cui sarà incapace di dire: «Questa è un’azione e la sto compiendo per una ragione particolare». Sarà così assorto che si muoverà come un danzatore che segue la musica. Avrà smesso di chiedersi il perché di questa o di quella azione in particolare, perché si renderà conto che non potrà mai scoprirne la ragione.
Non dite mai: «Questo non può essere fatto». Se fosse impossibile, gli insegnamenti elevati dello Yoga non avrebbero alcun significato e tutta la struttura andrebbe in pezzi. Coloro i quali desiderano ancora ardentemente dare, servire, deporre doni e poteri ai piedi di qualcuno, restano confinati all’inizio della seconda categoria. In realtà c’è un solo dovere, una sola azione che essi devono compiere, che consiste nel portare a compimento le pratiche affidate. Così facendo, verrà il giorno in cui si renderanno conto che non hanno nulla da offrire, perchè non sono nulla: non un nulla «meno della polvere», ma un «nulla» che indica che essi non si presentano più come entità autonome, separate. Sono quello che hanno contemplato, e i Suoi disegni sono i loro, la Sua forza è la loro: sono tutt’uno.
Questo è certamente lo scopo, ma, prima di conseguirlo, colui che lo ha fermamente in mente pensa a molte mosse, artifici e pratiche per raggiungerlo più in fretta. Nella sua opera Adorazione della mente, Srî Shankara dice:
Tu sei il mio âtman; il mio intelletto è tuo consorte; i miei organi di senso sono i tuoi servitori; questo corpo è il tuo tempio; prestare soccorso ai sensi è il mio culto di te; il mio sonno è samâdhi; il mio girovagare a piedi è l’atto di circumambulazione; tutte le parole che pronuncio sono inni a te; qualsiasi lavoro io faccia è per adorarti, o Signore. Gloria sia a te.
Bisogna far sì che la mente non dimentichi mai il suo scopo, nemmeno per un minuto, e che la vritti (modificazione mentale o «onda nel mare della mente») Kham Brahman - Tutto è Dio - possa essere insediata. Questo è l’unico modo per trascendere l’azione separatoria: purificare l’antahkarana affinché le percezioni non si stabiliscano nel manas, la mente inferiore, ma passino direttamente alla buddhi, l’intelletto superiore, che risiede alla confluenza del jîva e dell’âtman (il Sé individuale e il Sé universale).
Gli ultimi sei capitoli della Gîtâ abbondano di descrizioni dell’essere illuminato, l’uomo dall’azione cosmica, che non compie azioni, ma attraverso il quale le azioni vengono compiute. Leggeteli e rileggeteli. Chuang Tzu ha descritto così un tale uomo:
La pace del saggio non è ciò che il mondo chiama pace. La sua pace è il risultato del suo atteggiamento mentale. Tutto il creato non può disturbare il suo equilibrio, quindi la sua pace. Essere in armonia con l’uomo è la felicità umana. Essere in armonia con Dio è la felicità di Dio. In tempi remoti, Shun aveva rivolto la seguente domanda all’imperatore Yao: «Come impiega Sua Maestà le sue facoltà?»
«Non sono arrogante con gli indifesi; non trascuro i poveri; mi rattristo per quelli che muoiono; soccorro gli orfani; compatisco le vedove. Oltre a ciò, null’altro».
«Molto bene» esclamò Shun, «ma non ancora benissimo».
«Come è possibile?» chiese Yao.
«Sii passivo» disse Yao «come la virtù di Dio [ciò significa: «Sii superiore alla coppia degli opposti: sii imparziale»]. Il sole e la luna splendono, le stagioni passano, il giorno e la notte si alternano, si formano le nubi e cade la pioggia» [in altre parole, la rappresentazione cosmica segue il suo cammino].
«Ahimè!» esclamò Yao, «che confusione ho fatto! Tu sei in armonia con Dio, mentre io ero in armonia con le regole degli uomini».
9
La conservazione dell’energia può forse sembrare un argomento troppo pratico per avere un qualsiasi significato spirituale. Ma qui ci imbattiamo subito in uno degli aspetti principali della filosofia del non-dualismo, dove non c’è assolutamente nulla che non abbia un qualche valore spirituale. Tutto ciò che può essere afferrato con la mente o con i sensi è compenetrato dalla Coscienza o cit; viene infatti reso conoscibile e mostra le sue qualità particolari in virtù di quella Coscienza.
Chi vuole comprendere la filosofia sulla quale si fonda l’Adhyâtma-yoga si troverà immediatamente di fronte all’inadeguatezza del termine «Coscienza». Esso viene usato per indicare il potere, che è uno-senza-secondo, comprendente quelle verità fondamentali che nel mondo empirico sono denominate esistenza, essere, beatitudine e completezza. Questo cit o realtà suprema è il germe di tutta la realtà che si manifesta nei fenomeni. Esso è incomprensibile, immutabile e onnipervadente, e ammanta l’universo di nomi e forme con i suoi poteri apparenti, quali movimento, bellezza ed evanescenza, rimanendo esso stesso immutato nel processo.
L’apparire di nomi e di forme all’interno del cit, che è onnipervadente e senza forma, si ritiene che sia il risultato visibile del potere insito in esso, chiamato mâyâ, caratterizzato da tre gradi di attività e densità, conosciuti come i tre guna. Il potere della mâyâ, assieme ai tre guna, oscura la luce del cit: la filosofia Advaita ritiene che da esso si origini il mondo empirico. La mâyâ è immateriale e inesplicabile. Essa nasconde la natura della realtà facendo sì che l’illimitato appaia limitato; determina la formazione del tempo e dello spazio, che in realtà esistono soltanto sotto forma di estensione illimitata della coscienza. Tutte le manifestazioni di energia scaturiscono da questa unica sorgente - cit - e sono viste attraverso il mezzo deformante della potenza della mâyâ e dei suoi tre guna. Ciò fa sì che il suo potere si manifesti nel mondo empirico come energia, la sua esistenza come fenomeno vitale, e la sua beatitudine come amore umano e attrazione mondana.
Verrebbe da pensare che questa realtà, così potente e onni-comprensiva, non possa essere mai celata e che debba per forza rivelarsi nella sua interezza alla coscienza empirica dell’uomo e non apparire come se fosse composta di parti e di effetti. Ma bisogna ricordare che sia il corpo che la mente dell’uomo fanno parte del travisamento e della illusione della mâyâ ed egli è quindi cieco di fronte alla realtà, poiché, sebbene il mare possa conoscere l’onda, essa certamente non si renderà conto di far parte del vasto oceano fino a che non diventerà tutt’uno con esso.
I raggi del sole sono onnipervadenti e la sua nuda luce non può essere tollerata dall’occhio umano, tuttavia una foglia tenuta davanti al viso può offuscare alla nostra vista il suo splendore. L’esistenza empirica, con il suo concetto di molteplicità, tempo, spazio, forme, concetti e percezioni è come una foglia tenuta davanti alla visione divina. Lo scopo dello sforzo spirituale consapevole consiste nel rimuovere questi ostacoli e nel riconoscere che la Verità, osservata in tutta la sua pienezza, è il fondamento di tutte le cose, al fine di rientrare finalmente in essa, per sempre. In questo modo si vedrà che lo Yoga è veramente un processo di disapprendimento, di riassestamento e di rimozione, piuttosto che una scienza che insegni qualcosa di nuovo all’allievo. Ciò è confermato dal fatto che ad ogni fase progressiva dell’allenamento l’allievo sembra riconoscere il territorio in cui entra, e il senso di sicurezza e di gioia cresce nella misura in cui egli avanza.
Queste parole possono fornire un’idea generale dello scopo dello sforzo spirituale, ma il nostro interesse è di vedere come il potere di Dio, o realtà, che permea tutto, possa essere liberato dalle restrizioni create dall’illusione della mâyâ e quindi manifestarsi nella sua pienezza.
Ovviamente il potere e l’energia non sono la stessa cosa. L’energia è la conseguenza dell’azione del potere su un oggetto. Il magnete - di per sé immobile e senza qualità - genera una manifestazione di intensa energia e di movimento nella limatura di ferro che viene a trovarsi nella sua orbita, ma rimane intatto e immutato. La domanda che ci poniamo non è come conservare il potere, dato che esso non cambierà mai in termini di qualità o di intensità, ma come manipolare l’oggetto sul quale il potere agisce - in questo caso il corpo e la mente - in modo tale che essi possano essere caricati di energia, conservandola il più a lungo possibile: questo è il problema.
Alcuni si domanderanno come il più grande possa essere manipolato dal più piccolo, in altre parole come un tale potere possa essere usato dell’uomo e subire un apparente cambiamento, una volta che sia stato concepito dalla mente. Per spiegare questo concetto il nostro maestro ricorreva alla similitudine di un ghiacciaio che si origina sulle alte vette himalayane, dove l’acqua è pura e incontaminata. L’acqua scende a valle per congiungersi ai fiumi delle pianure che vanno verso il mare e nella sua corsa attraversa molte città, raccogliendo i rifiuti degli abitanti. L’acqua ora è torbida e inquinata, eppure è lo stessa che era sgorgata dai ghiacciai lontani tra le vette dell’Himalaya. Il cambiamento è dovuto all’azione dell’uomo ed è temporaneo, in quanto scomparirà quando l’acqua raggiungerà l’oceano infinito: proprio come il cit (o Coscienza) compenetra tutti i fenomeni. Ma a causa del potere limitante della mâyâ esso viene ovunque identificato con delle coppie di opposti: terrore o gioia, astio o beatitudine. È la stessa forza che fa splendere il sole, unire gli atomi e che, allo stesso tempo, induce l’uomo a pensare, ad avere simpatie e antipatie, a trasformare la sua mente in un campo di battaglia dove si agitano stati d’animo e sentimenti. Tuttavia questa Coscienza non ha forma, né limiti, né qualità.
Supponendo che sia così, come è possibile arrestare questo processo e riprendere la propria natura, che è tutt’una con questo elemento puro? Quali passi si devono compiere per rimuovere la foglia che ostruisce l’occhio interno, affinché la sua visione sia sgombra e senza distorsioni? Il mondo soffre di uno stato di tensione generale. Guerre e venti di guerra, per non parlare di discordie personali e di paure, fanno sì che la nostra energia mentale e nervosa paghi un pesante tributo. Ogni individuo deve fare qualcosa per arrestare questo spreco di forze, per far sì che i nervi e la mente raggiungano uno stato di equilibrio, in modo che non siano colpiti così frequentemente dalle avversità della vita. A questo risultato si deve giungere con la pratica dello Yoga, se si osservano i principi su cui è fondata questa disciplina. Secondo il Vedânta, prima che l’uomo prenda coscienza di se stesso, ovvero prima di ritenere di essere diverso dal corpo e dalla mente e superiore a entrambi, egli è simile a una tela tessuta dalla mente e da ciò che contiene, dal corpo e dalle sue reazioni, sebbene entrambi siano animati dallo spirito divino. Il corpo e la mente non sono di per se stessi dotati di alcuna capacità, ma sono attivati e resi apparentemente vivi grazie alla vicinanza della Coscienza. Si ritiene che tramite la creazione, ovunque giunga il potere della mâyâ, essa stessa onnipervadente, la luce della Coscienza venga nascosta da tre densità o impulsi rivolti all’attività, conosciuti come i tre guna. Si potrebbe dire che la mâyâ sia un altro termine per indicare i tre guna, e che i guna siano equivalenti al termine mâyâ. Questi guna condizionano la ricezione del cit da parte di un oggetto; essi sono conosciuti come tamas, rajas e sattva e sono presenti, a livelli diversi, in tutti i fenomeni.
Il tamas è il guna che produce il velo più spesso. Si manifesta come inerzia della materia, come errore, passività e assenza di capacità di discernimento. Il rajas dà una velatura meno completa; è il principio dell’attività, che si manifesta in tutte le cose come vita e sotto forma di desiderio, avidità e ambizione nella mente. Il sattva fornisce il velo più sottile; è il principio della trasparenza e della riflessione, dà origine alle qualità dell’equilibrio e della comprensione. Si dice che i guna agiscano assieme e formino la trama mutevole della vita interiore ed esteriore. Essi sono presenti nel mondo della materia, nelle attività mentali e nella vita in generale, ma ognuno a livelli diversi. Così, sebbene il tamas prevalga nella materia, in essa è anche presente il sattva-guna, che rappresenta il principio che si riflette o che si manifesta più chiaramente nella Coscienza.
Quindi la Coscienza non solo esiste, ma è, seppur debolmente, presente anche nelle forme più primitive della materia: il che è stato ormai accertato dalla scienza. La materia è resistente, perché in essa predomina il guna tamas; tuttavia, anche se sembra stabile, le sue più piccole particelle - atomi e molecole - sono in grado di modificarsi e di muoversi. In questo movimento c’è anche del ritmo, che denota la presenza del sattva.
Ciò che vale per la materia vale per l’uomo. Anch’egli è una miscela, non un quid unico, dato che i tre guna sono presenti in lui. Ma nell’uomo essi si alternano: un guna prevale sull’altro in un certo momento, e viceversa in un altro; questo avvicendamento dura fino a che egli non raggiunge il controllo interno. Quindi non avrà nessuna ragione di disperarsi o di compiacersi di quanto gli accade. Egli non sarà mai al sicuro dall’agitazione creata dai tre guna fino a che non avrà raggiunto il suo stato naturale, cioè fino al momento in cui la loro influenza non verrà neutralizzata e superata.
A questo punto viene da chiedersi: «C’è uno scopo in questo scambio perpetuo?». Secondo Vâcaspati Misra, un antico filosofo del Vedânta, esiste uno scopo. Egli ha scritto:
Come una lampada, l’azione dei guna ha un unico scopo. Presi individualmente lo stoppino e l’olio si oppongono all’azione del fuoco, ma quando entrano in contatto con il fuoco agiscono insieme con l’unico scopo di dare luce. I vari umori del corpo, sebbene posseggano proprietà contraddittorie, collaborano allo scopo di sostenerlo. Allo stesso modo, i tre guna, sebbene posseggano proprietà tra di loro contraddittorie, collaborano per il raggiungimento di un unico fine: l’emancipazione dello spirito.
I guna, attraverso la loro esistenza e attività, conducono l’uomo a trascenderli e a conquistarsi la libertà. Come avviene questa emancipazione? Lo scopo dell’esistenza dell’uomo è raggiungere una totale libertà e indipendenza ed egli non sarà soddisfatto fino a quando la sua vera natura non si sarà manifestata per poter vivere in essa. Sarà quindi obbligato a liberarsi da qualsiasi imposizione e condizionamento. L’influenza dei guna genera nell’uomo un totale asservimento; liberarsene significa invece trascenderli. L’allenamento spirituale, la disciplina e l’istruzione hanno come obiettivo l’emancipazione. Essi indicano il cammino per passare dalla dominazione del tamas alla supremazia del sattva e per andare oltre.
Nella Bhagavad-gîtâ ci sono molte indicazioni utili per trascendere i guna, allo scopo di controllare l’attività della mente, di guidare quella del corpo e di conservare l’energia. C’è un verso che dice:
I guna guidano tutte le nostre azioni. Ma l’ignorante non lo comprende e pensa: «Io sono colui che agisce».
Il senso di questo verso viene spesso distorto nel modo seguente: «Non sono responsabile delle mie azioni, poiché sono i guna che agiscono». Ma non è così semplice! Siamo noi i responsabili perché offriamo il terreno adatto su cui un guna in particolare può attecchire e un certo tipo di azione germinare e dare frutti.
Tuttavia questo verso della Gîtâ esprime un concetto esatto: è l’ignorante che si identifica con l’attività automatica prodotta dai guna. Essi si attraggono l’un l’altro e producono l’azione e la reazione. Essi sono la causa delle reazioni nei sensi sottili e delle risposte nel corpo grossolano. Il vero Sé è distaccato dai sensi, dalla mente e, in ultima analisi, anche dai guna. Ma solo quando ciò è stato confermato dall’esperienza diretta, diventando una certezza sulla quale agire automaticamente, diventa possibile per l’uomo conquistare il diritto di dissociarsi dalle sue azioni e reazioni. Allora il falso Sé sarà incapace di fare del male come un serpente a cui sono stati tolti i denti del veleno. Egli non raggiungerà questo stato di trascendenza astenendosi dall’azione, bensì compiendo con distacco qualsiasi azione gli si presenti dinnanzi.
Come può un uomo liberarsi dalla dominazione dei guna e raggiungere una posizione elevata dalla quale trarre diletto da essi, rimanendo peraltro indifferente alle loro macchinazioni? A questo proposito un detto orientale dice: «Fino a che la perla è nell’ostrica non può adornare la corona reale». La nostra vera natura rimarrà celata e saremo schiavi delle passioni fino a quando ne saremo irretiti e asserviti ad esse. L’equilibrio, finché è mantenuto in modo consapevole, contiene ancora il seme della paura di cadere. Ci vuole coraggio per mantenersi in equilibrio, ma l’audacia appartiene solo a chi ha i piedi saldamente poggiati per terra.
I differenti aspetti dell’allenamento forniscono mezzi diversi per controllare i guna e per fermare lo spreco continuo di energia che essi causano. Queste pratiche sono rivolte al cuore o ai centri dell’intuizione, la mente e la volontà. In entrambi i casi esse hanno lo scopo di rallentare l’attività sfrenata, operando delle scelte in modo consapevole e illuminato, dando quindi modo al potere che si cela dietro questi centri di manifestarsi.
Meditazione, controllo della mente, prontezza e concentrazione: queste sono le pratiche. La meditazione svuota il cuore da tutto ciò che è materiale ed effimero, per riempirlo d’infinito e d’astratto. Essere in grado di esercitare un vero controllo sulla mente significa scoprire e dominare la causa della sua attività e non solo l’effetto, cioè l’attività in sé. La causa verrà rivelata solo tramite l’intuizione nata dalla meditazione, ma i suoi effetti possono essere neutralizzati attraverso il controllo dello sperpero di energie mentali prodotto dal parlare a vanvera e dalle fantasie oziose che scaturiscono dal desiderio e dall’avversione. Viene infine praticata la concentrazione su un punto focale, che permette di sostenere il sattva-guna. Queste pratiche forniscono una tecnica mediante la quale l’allievo supera gli ostacoli prodotti dall’ignoranza: i guna.
Nel Masnavi di Rumi c’è un passaggio in cui viene indicato il modo perfetto per privare i guna del potere di distogliere e di sottrarre:
O Signore, ci sono miriadi di trappole e di esche e noi siamo stupidi e avidi uccelli, o Tu senza desiderio! Mettiamo il grano nel nostro granaio, e tuttavia perdiamo il grano che è stato raccolto. Se non ci sono topi ladroni nel granaio, dov’è andato a finire il grano di quarant’anni di devozione? Perché la sincerità quotidiana della nostra devozione non viene immagazzinata nel nostro granaio? Ma sebbene ci siano mille trappole ai nostri piedi, se Tu sei con noi non avremo nulla da temere.
Questo è il segreto: «Se Tu sei con noi, non avremo nulla da temere». Se teniamo l’occhio del nostro cuore fisso su Dio o sulla Verità, queste trappole - questi guna instabili - non avranno nessuna possibilità di derubarci.
Sembra dunque che il potere dei guna possa essere distrutto solo quando qualcosa di più grande di loro passa davanti ai nostri occhi ed è riconosciuto dalla mente. Nella Gîtâ il Signore dice: «In verità questa mia illusione divina, causata dai guna, è difficile da superare. Solo quelli che si rivolgeranno devotamente a Me la supereranno». I guna sono i ladri segreti dell’energia. Il solo modo di difendere il nostro tesoro consiste nel dissociarsi da essi, trasferendo lo sguardo interiore verso l’Immutabile, e nell’assistere alle loro attività mutevoli senza esserne influenzati.
Il Dr. Shastri soleva dire: «Immaginate una certa quantità d’acqua. Se è contenuta entro gli argini, vale a dire se è tenuta a freno nella sua corsa verso il mare, diventerà un profondo corso d’acqua in movimento. Ma se lasciate che si espanda senza limiti su un terreno di un ettaro, sarà alta solo alcuni centimetri, non si muoverà e diventerà presto stagnante». Il controllo e la direzione sono i metodi che devono essere utilizzati se si vuole conservare l’energia e conoscere la Verità suprema.
La sentenza finale dei saggi upanisadici suona così: «Nessuno, i cui sensi siano impuri e la cui mente non sia ordinata e tranquilla, sarà in grado di acquisire la conoscenza del Sé». Il solo modo sicuro per conseguire la liberazione consiste nell’allontanarsi dall’esperienza infinita dei sensi e della mente, concentrandosi, attraverso la meditazione, sul regno sottile che sta dietro e sopra la mente.
In effetti i santi di tutte le religioni hanno dimostrato con la loro vita che questo è possibile. Essi sono la manifestazione dell’energia estrema ma tuttavia selettiva, che è apparentemente inesauribile. Traggono il loro potere spirituale in modo naturale attraverso i canali, ora aperti e purificati, del loro cuore e della loro mente e lo conservano dedicandolo esclusivamente alla gloria e al servizio della sorgente da cui sgorga, e con la quale essi sono ora collegati in modo consapevole. Per loro, il mondo intero, il corpo e anche la mente, sono manifestazioni di questo Potere e la loro vita è dedicata alla rivelazione di questa Verità agli altri. Quanto più direttamente essi comprendono l’onni-pervadenza di Dio, tanto più chiaramente essa si rivelerà ai loro simili. L’uomo può prendere il fuoco solo da una fiamma accesa, non può appiccarlo con i rami secchi delle teorie.
Così dovrebbe essere anche per noi, ma non siamo tutti dei santi. Dobbiamo essere in grado di attuare la Verità per noi stessi in questo mondo e ci sono certamente parecchi modi esteriori per farlo. Per esempio, uno di questi potrebbe essere l’eliminazione di tutti i tipi di abitudini inutili, la prima delle quali è quella di parlare in modo sconsiderato ed eccessivo, come un rubinetto la cui guarnizione è consumata e che gocciola in continuazione. C’è un vecchio detto secondo il quale all’uomo, quando nasce, vengono concessi un certo numero di respiri e non di più. Se si eccita e si arrabbia o parla troppo, la sua respirazione accelera cosicché egli la spreca avventatamente senza alcun risultato e per questa ragione è costretto ad abbandonare la scena della vita prima del tempo. Potrebbe sembrare il monito di una persona taciturna a un parlatore loquace, ma ha pur sempre valore di avvertimento.
Dopo aver cominciato a tenere a freno i suoi comportamenti esuberanti, il discepolo deve impostare un ritmo e formulare un programma per la vita di tutti i giorni. Ciò gli eviterà preoccupazioni inutili e consentirà alla mente di dedicarsi alle cose essenziali. L’ordine esterno è generalmente un indizio dell’ordine interno: se ognuno di noi vuole guidare la propria vita, anziché esserne dominato, è necessario attuare una decisa tecnica di selezione e di rifiuto.
Le pratiche interiori di meditazione e di contemplazione facilitano le pratiche esteriori oltre a consentire, non dimentichiamolo, di coltivare una visione universale per evitare di danneggiare gli altri col pensiero, con la parola o con l’azione. Se questo atteggiamento non è presente, significa che non si è raggiunta una vera comprensione della filosofia Advaita e, fatto più grave, che non c’è fede nella onnipervadenza dello spirito.
Il ritiro dalla vita esteriore per concentrarsi sulla sua vera essenza - ciò che è nascosto - mediante la meditazione e la contemplazione, assieme al sentimento di benevolenza universale, sono i metodi tradizionali per conservare il potere e l’energia spirituale. Alcuni versi di Srî Sankara dice che la vera libertà significa libertà d’azione, sia nella vita normale che in quella di livello più elevato:
Si può vivere la vita del mondo o essere monaco,
vivere nella società o in un romitaggio,
ma colui la cui mente si dedica alla gioia
della contemplazione di Dio,
è felice, felice, felice.
Solo se smette di vagare, l’uomo potrà raggiungere l’inesauribile all’interno della propria natura, e identificandosi con l’Unico potrà sfuggire al dominio dei molti.
12
In un antico testo, Il convegno degli uccelli, del poeta e filosofo persiano Farid ud-Din Attar, c’è una strofa che dice:
Dio è tutto e le cose hanno solo un valore nominale;
il mondo visibile e quello invisibile sono solo Lui stesso;
non c’è nessuno al di fuori di Lui.
Con queste parole Attar dimostra che lo spirito onnipervadente, puro e immutabile sta sopra, sotto e all’interno di tutti i fenomeni e che lo scopo e il punto culminante della vita di ognuno di noi deve essere la sua realizzazione, poiché l’uomo non conoscerà mai se stesso e non raggiungerà mai la pace fino a quando non lo incontrerà direttamente. Tutte le manifestazioni terrene e quelle imperscrutabili sono una sua emanazione, poiché è la matrice da cui tutto nasce. L’uomo è la manifestazione più strabiliante di tutte queste meraviglie, e trovandosi in mezzo ad esse, attende il momento favorevole in cui ognuna, a turno, gli svelerà i segreti che egli sarà riuscito a carpire loro con una indagine piena di imprevisti. Egli racchiude in sé una sete divina, una determinazione inconscia e tuttavia combattiva di conoscere la verità, non solo nei riguardi di se stesso, ma di tutto ciò che lo circonda.
Se andremo a ripercorrere la sua scalata verso la conoscenza, vedremo che quando l’uomo ha iniziato il suo cammino di individuo già consapevole, seppure ancora primitivo, era come un bambino al luna-park, affascinato ma allo stesso tempo spaventato da ciò che vedeva, desideroso di scoprire tutto, ma anche facilmente ingannato dai trucchi della fiera. Egli era circondato da un mondo costituito di sostanze sia sottili sia grossolane, che, secondo la filosofia Vedânta, come sappiamo, è governato da una legge e da uno scopo divino. Tutto ciò, a quel tempo, doveva essergli apparso uno spettacolo terrificante, ma tuttavia in grado di offrirgli delle possibilità. Le leggi che regolano il tempo e lo spazio, l’attrazione e la repulsione, la forza di gravità e le altre forze che agiscono attorno a noi, sono sicuramente la prova della presenza di un potere onnipervadente; ma quando l’uomo si trovava in uno stadio infantile sia dal punto di vista mentale che spirituale, queste forze passavano inosservate e in ogni caso erano incomprensibili per lui.
L’uomo primitivo non si rendeva perciò conto di essere l’unico spettatore consapevole, in mezzo a tutte queste meraviglie. I pesci, gli uccelli e tutti gli altri animali vivono in natura inconsapevolmente, vale a dire in modo istintivo, obbedendo alle sue leggi, in molti casi meglio di quanto non sappia fare l’uomo. Ma solo l’uomo è totalmente consapevole della molteplicità - della quantità e della varietà delle cose che lo circondano - e le osserva per mezzo di una mente, la sua, ancora sconosciuta, che secondo il Vedânta è composta di materia sottile, la quale tuttavia è in grado di registrare le varie manifestazioni della materia più grossolana che le sta attorno. In questa prima fase, l’uomo credeva che tutto ciò che vedeva o che sperimentava fosse dotato di una vita simile alla sua. Per lui gli stati mentali erano prodotti da forze invisibili. Sentimenti come l’odio, il desiderio di vendetta e la sensazione di potenza erano indizi della presenza e dell’azione di esseri dotati di grande potere; allo stesso modo gli apparivano le tempeste, le alluvioni, le pestilenze, le eclissi, i terremoti e altri simili fenomeni: per lui tutto era vivo e misterioso. La sola cosa che non considerava piena di mistero era il più grande di tutti i misteri: la sua mente. Quella mente non aveva ancora consapevolezza di sé, poiché era impegnata unicamente nella registrazione e nella valutazione di tutto ciò che si trovava all’esterno. Ciò significa che l’uomo non aveva ancora imparato a considerare la sua mente come un oggetto, a osservarne e a valutarne le diverse attività.
Come abbiamo detto, secondo gli insegnamenti del Vedânta, la mente è composta di materia sottile e tuttavia inerte. La sua caratteristica fondamentale è quella di modificare in continuazione sia la qualità che la quantità della sua attività: ciò le viene imposto dal principio supremo che la compenetra. Questo organo interno, o antahkarana come viene chiamato in sanscrito, opera a due livelli. Prima entra in azione la mente inferiore o manas, che è il centro di registrazione e di ricezione ed è anche la sede delle attività rivolte all’esterno. L’altro livello di funzionamento è quello della mente superiore o buddhi, che è il centro dell’attività di indagine e di discriminazione.
Si può affermare che il centro inferiore o manas, essendo rivolto all’esterno, si comporta come una maschera in quel gran teatro che è la mente. Essa accoglie e guida senza operare alcuna selezione tutto ciò che incontra e lo introduce alla presenza della buddhi, che è il potere di discriminazione. Uno scrittore ha detto che questa funzione è simile a quella di un cancello, poiché lascia passare indiscriminatamente le sensazioni, a una a una, nelle regioni più elevate della buddhi. Essa invita tutte le qualità e gli istinti dell’uomo ad assisterla nel lavoro, e tra questi possiamo indicare l’Io con i suoi pregiudizi e le sue preferenze, la memoria e le emozioni. Essi raggiungono la buddhi e, mentre è ancora priva di allenamento, ne stravolgono le intenzioni, tessendo una tela di idee distorte attorno a quella sfortunata e vulnerabile creatura che è l’uomo.
Anche il centro più elevato dell’attività, la buddhi, agisce a due livelli. La buddhi inferiore diagnostica e discrimina, mentre quella superiore, che è ricettiva, risponde solo agli impulsi e alle impressioni molto sottili. La funzione della buddhi inferiore è la discriminazione e il riconoscimento attraverso la deduzione e la logica, mentre la buddhi superiore è il campo del grande potere della percezione, dell’ispirazione e dell’intuizione immediata. La differenza nel tipo di attività tra la mente inferiore e quella superiore è dovuta a una diversità della loro capacità di ricezione, vale a dire della percezione della luce divina, o conoscenza, che, sebbene permei entrambe, viene da ognuna di esse registrata in modo diverso.
In poche parole, tutti gli esercizi e le pratiche dello Yoga hanno lo scopo di produrre complessivamente equilibrio, armonia e tranquillità nella nostra mente. Ciò fa sì che i poteri d’ispirazione e d’intuizione della buddhi superiore si manifestino e guidino l’attività sia della mente inferiore che di quella superiore. Le pratiche di controllo della mente, l’assenza di passione, e soprattutto il lento ingresso nel regno della meditazione, devono essere affrontati con intelligenza e non con spirito fieramente ascetico. Queste pratiche, quando agiscono assieme, producono in tutta la mente un equilibrio e poi un vuoto. Non si tratta di vacuità, bensì di uno stato che non si identifica con le varie influenze a cui va soggetto, e dalle quali non viene disturbato. È in questa calma mentale, determinata dalla presenza dei poteri dello stato più elevato della buddhi, che si verificano le ultime prodigiose trasformazioni dello Yoga. Ma quando abbiamo lasciato il nostro uomo per parlare del suo strumento mentale, egli era ancora allo stato primitivo. La sua vita spirituale era condizionata da una mente in grado di esercitare un’attività di livello molto basso, dominata dagli istinti, dalle emozioni e da un Io non del tutto sviluppato.
Ad alcune persone la definizione di «Io non sviluppato» suonerà senza dubbio in modo strano. Qualcuno avrà l’impressione, durante il periodo preliminare di indagine e di ricerca, di poter perdere questo Io, o di distruggerlo, o di metterlo in qualche modo fuori uso. Ma l’insegnamento del Vedânta dice che l’Io è fondamentalmente divino, che esso è potenzialmente l’Io dell’uomo, e che nei due centri, la buddhi superiore e l’Io, si cela il segreto dell’immortalità e la chiave della liberazione. Mentre la buddhi superiore, l’apice della mente, comincia a rendere operativo il potere di visione interiore immediata e la capacità di intuizione, l’Io si separa dal tumulto inferiore. Esso si accresce e vede la sua vera natura rispecchiarsi in quella vivida luce che ora si riflette e risplende nelle regioni più alte della mente; e una volta che queste due entità, l’Io e la buddhi superiore, riconoscono la loro comune origine, la rappresentazione sarà finita, l’uomo sarà libero, poiché saprà chi è effettivamente.
Il rifiuto del mondo e dei suoi piaceri non conduce sempre a questa conclusione. La rinuncia e l’ascesi possono essere intrapresi senza una vera motivazione, senza alcuna effettiva comprensione della Verità, così come ci viene insegnato dalla filosofia. La liberazione avverrà con la scoperta della vera natura dell’Io, svelata attraverso l’attività della buddhi che ora domina e risplende.
A un certo punto si è verificata la prima trasformazione dell’uomo ed egli ha mosso i primi passi verso il riconoscimento dell’esistenza della mente e della possibilità dell’esistenza di quello stato trascendente di cui si è appena parlato. Questo riconoscimento si è sviluppato molto lentamente, ma alla fine egli si sarà reso conto dell’importanza della mente e avrà avuto almeno una vaga idea dei poteri e delle ricchezze nascoste al suo interno.
Che cosa ha prodotto questo cambiamento interiore? Perché l’uomo non si è accontentato di rimanere un eterno spettatore della commedia? Sarebbe stato sicuramente un ruolo abbastanza eccitante e gratificante. Vi ricorderete che Attar ha scritto: «Le cose hanno solo un valore nominale» e ciò significa un valore mutevole, un cambiamento inconsistente. Il significato delle cose e degli avvenimenti si modifica a seconda del valore che gli uomini attribuiscono loro. Questo avviene anche per l’uomo, che tanto più si trasforma quanto più si abbandona al dominio della luce che cresce dentro di lui. Perché mai dovrebbe crescere quella luce, dal momento che è già divina o, per meglio dire, «piena»? Perché non continua a diffondere sempre la stessa luminosità, come una candela o una torcia? La crescita e l’espansione non avvengono all’interno della luce stessa, ma all’interno dell’oggetto in cui la luce si diffonde. Questa luce è pienezza, la vera essenza della vita. Essa non aumenta né cresce, ma come un solvente divino fa sì che i fenomeni siano in continuo mutamento. L’uomo continuerà a non aver pace fino a quando in lui non si sarà verificata questa trasformazione e fintantoché non avrà sperimentato direttamente la realtà, cioè il suo proprio essere, senza alcun tipo di barriera. Fino a quel momento, come dice il poeta elisabettiano Marlowe, l’uomo sta:
ancora scalando alla ricerca della conoscenza infinita,
e, come le sfere celesti, è in continuo movimento.
Non è stata trovata nessuna parola adatta per questa pienezza. A volte viene chiamata Verità o Realtà, altre volte Dio, altre ancora Vita della vita e infine Beatitudine, ma nessuna di queste espressioni fornisce una qualsiasi indicazione di ciò che è realmente. Essa sarà conosciuta solo al momento della trasformazione finale. Per ora la comprendiamo solamente attraverso i suoi effetti e, cosa più importante ancora, attraverso la testimonianza di coloro che ne hanno fatto esperienza diretta.
Anche se l’uomo è in grado di percepire il momento in cui il sole sta lentamente affacciandosi all’orizzonte per diffondere la sua luce, come è possibile che possa esplorare spazi sempre più grandi della sua mente man mano che la luce si fa strada in essa? Nella Katha-upanisad si dice: «Il Creatore ha fornito l’uomo di organi di senso rivolti all’esterno. Un saggio li ha rivolti all’interno, e ha visto il Sé, faccia a faccia». Questi saggi sono le avanguardie dell’umanità, uomini che con la loro mente hanno preceduto i loro fratelli, indicando il cammino da seguire. Questi leader, dotati d’intuito e di abnegazione, non si trovano solo tra gli uomini. Anche tra gli animali si può osservare il manifestarsi di simili caratteristiche. Si possono notare fra di essi individui egoisti, litigiosi, ma ci sono anche creature nobili e altruiste, che costituiscono un esempio non solo per la loro specie, ma anche per l’uomo, e che sono di guida per tutti gli altri.
Gli uomini guida - i guru e i rishi(veggenti) - grazie alla loro mente ispirata e alla loro elevata spiritualità furono i primi a penetrare nella miniera non ancora sfruttata dell’antahkarana. Essi l’hanno aperta, rivelandone i tesori, per il bene di tutti. Questi pionieri spirituali sono vissuti molto tempo fa, ma i loro discendenti vivono ancora oggi. I Veda e le Upanisad, e probabilmente molti altri classici spirituali in altre parti del mondo, hanno migliaia di anni. La Bhagavad-gîtâ fa parte del Mahâbhârata, una delle testimonianze più antiche, ed è ancora oggi chiamata la «Bibbia dell’India». Gli insegnamenti buddhisti e cristiani si basano su fondamenta che sono ancora più antiche.
La consapevolezza spirituale e mentale dell’uomo iniziò a svilupparsi nel momento in cui la Verità fu rivelata oralmente da questi maestri spirituali. Gli insegnamenti che possediamo oggi furono tenuti in gran conto e trasmessi oralmente da loro per centinaia, forse migliaia di anni, prima di essere messi per iscritto.
Abbiamo detto che la trasformazione spirituale dell’uomo fu probabilmente causata da una ricerca, che, pur non essendo palese, tuttavia aveva uno scopo ben preciso. Si deve a questa direzione spirituale e al fatto che la sua mente, sebbene egli non se ne rendesse conto, si stava inevitabilmente espandendo nella luce, se l’uomo è divenuto consapevole delle qualità insite in questo suo dispositivo interiore, strumento di precisione con il quale sarebbe stato in grado di scoprire il segreto di tutto ciò che lo circonda. Così ha avuto inizio la ricerca della verità suprema. Da allora la ricerca ha proceduto su due linee parallele. Da una parte c’è la linea che usa la capacità deduttiva, la facoltà logica e quella di discriminazione: le qualità della buddhi inferiore. Dall’altra, quella che utilizza i poteri interiori e sovra-mentali dell’ispirazione, della visione diretta e dell’intuizione: questi sono gli strumenti della buddhi superiore.
Non si può dire che coloro che sono ancora dominati dal manas, la mente inferiore istintiva e emotiva, stiano già seguendo una via. La loro vita spirituale e mentale è solo agli inizi. La prima via definita è il cammino della buddhi inferiore. Essa attrae lo scienziato, l’inventore e tutti quelli che ricercano la verità attraverso l’esperimento, la deduzione e il pensiero logico. Ma le loro conclusioni sono state ottenute con l’utilizzo di uno strumento limitato, dimodoché anch’esse risulteranno limitate, ovvero soggette al cambiamento.
La seconda via è seguita da coloro che hanno utilizzato una guida spirituale per indirizzare la loro mente. Essi agiscono e fanno le loro scoperte spinti da quei poteri sovra-mentali che operano in una dimensione superiore e che hanno come risultato l’apprendimento e la realizzazione interiore. L’ineluttabilità di un’essenza onnipervadente - Uno-senza-secondo - deve essere stata intuita gradualmente da questi esploratori avventurosi. Essi sono stati fortunati, e lo sono tuttora, poiché questo riconoscimento fa sì che l’Io perda la sua particolare connotazione, determinando così la trasformazione finale, che è l’accettazione naturale e spontanea della non-dualità.
Cerchiamo ora di collegare il discorso generale sul progresso interiore dell’uomo con la nostra situazione particolare. Ciascuno di noi inizia la propria infanzia come essere primitivo, che reagisce e registra con i sensi rivolti sempre all’esterno; i suoi istinti si manifestano già con il primo respiro e su di essi la mente inferiore mantiene un controllo puramente formale. A ciò segue inevitabilmente il lento riconoscimento della propria esistenza individuale e l’emergere dell’Io. In seguito egli non sarà più libero di scegliere - la cosa non è così semplice - bensì condotto, seppur inconsciamente, verso una di queste due vie: la conoscenza empirica - la via della buddhi inferiore - o la via della buddhi superiore. Una volta che avrà iniziato, egli potrà perseverare lungo una determinata via fino alla fine, o potrà, come spesso accade, cambiarla cammin facendo.
Tradizionalmente si ritiene che entrambe le vie posseggano due qualità essenziali per l’aspirante spirituale. La prima è il vicâra, o ricerca, l’altra è la reverenza. Da questi due atteggiamenti mentali - che sono in effetti spirituali - scaturiranno, a tempo debito, conoscenza, devozione e l’intenzione di rendere gli altri compartecipi della Verità. La ricerca consiste nell’investigare con pazienza, assiduità e senza pregiudizi, e può essere intrapresa solo da un vero esploratore, non da chi colleziona semplicemente un insieme di eventi. Questa tipo di ricerca spalanca la strada alla conoscenza.
Il vero allievo, mentre avanza, farà inevitabilmente appello alla devozione, fino a che vedrà espandersi e diffondersi su di lui lo splendore della conoscenza. Queste due qualità sono essenziali per i viandanti che utilizzano entrambi i sentieri e vi si addentrano. Gli scienziati, gli inventori, i medici, i geologi, tutti quelli che operano attraverso processi deduttivi e diagnostici e che giungono a ottenere dei risultati per mezzo dall’attività mentale, mostrano di possedere un vicâra insaziabile e di avere un gran rispetto per le loro capacità.
L’allenamento yoghico che ha lo scopo di padroneggiare la mente, di poter entrare in meditazione e di raggiungere infine la trascendenza, assomiglia alla tecnica di un esperto scalatore: la mente può essere infatti visualizzata come una grande montagna. Il viaggio spirituale, o meglio ancora l’allenamento spirituale, è una scalata lungo le pareti della mente. Il discepolo, sotto la guida del maestro, supera i vari dislivelli fino a raggiungere la sommità della mente. Al pari della cima di una montagna, questa sommità è circondata dai venti celesti e dai venti dell’illuminazione e nulla può ostruirla.
Il raggio d’azione della mente inferiore, che è rivolta all’esterno e sempre affacendata, è simile alle colline che si stendono ai piedi di una grande montagna. Esse sono ricoperte da una vegetazione lussureggiante e brulicano di vita, anche se filtra poca luce. Gli abitanti della zona sono fonte di distrazione e di tentazione, dato che sono sempre pronti a far perder tempo allo scalatore e a disperdere le sue energie, con chiacchere e amenità varie. Questa, io credo, è invariabilmente l’esperienza che tutti gli scalatori ad un certo momento devono fare. Quando infine lo scalatore si è preparato fisicamente e mentalmente e ha deciso cosa deve lasciare dietro di sé e cosa deve portarsi appresso, giungendo a questa consapevolezza attraverso un allenamento preliminare, si incammina per la sua strada. La vita animale e vegetale scompare molto presto e il paesaggio si fa spoglio, tuttavia conserva una sua particolare bellezza. Ora lo scalatore utilizza costantemente la sua capacità di scelta e di decisione a mano a mano che procede, passo dopo passo, lungo il fianco della montagna. Egli impara anche a risparmiare energia per far fronte alle molte sollecitazioni che potranno presentarsi durante l’ascesa. In altre parole, il livello della buddhi inferiore è stato raggiunto, e l’allievo può aver bisogno di molto tempo per oltrepassarlo. Quando supera infine il limite delle nevi perenni, lo scalatore fa molte esperienze sui due versanti della montagna, sia su quello interno che su quello esterno, esperienze che sono tradizionalmente conosciute, ma di cui pochi sono in grado di parlare. Il raggiungimento della vetta di una montagna, o l’innalzarsi della mente fino al suo culmine, richiede il perfezionamento di certe qualità, che sono già state precedentemente indicate.
Queste qualità sono la capacità di individuare la giusta direzione, l’attitudine a indagare senza pregiudizi sulla natura e sullo scopo della ricerca, il rispetto che nasce dal riconoscimento della sua vera essenza, e infine la quantità di energie interiori ed esteriori profuse sia dallo scalatore che dal discepolo nella ricerca intrapresa. Ma non bisogna forzare troppo le similitudini, perché potrebbero scattare come un elastico troppo teso e ferire. Il percorso in ascesa della mente non è certamente così facile e agevole come è stato fino ad ora presentato. Ciascuno di noi raggiunge un determinato livello, che è quello che gli conferisce il massimo grado di sicurezza. Per alcuni questo livello è quello della mente inferiore, per altri quello della buddhi, sia inferiore che superiore. Talune persone rimangono al medesimo livello per tutta la vita, altre cercano incessantemente di andare oltre e più in alto. Comunque sia, ad un certo punto, ogni uomo deve iniziare a scalare la sua montagna. Egli potrà fare spesso marcia indietro, ma una volta che il desiderio di libertà si sia destato in lui, proseguirà il cammino e raggiungerà la vetta. L’unico livello da cui nessuno scenderà mai è la sommità della mente.
Durante l’ascesa, ogni situazione esterna o interna è in grado di far maturare la tecnica del discepolo, proprio come i vari problemi che si presentano durante la salita accrescono l’esperienza dello scalatore. Ogni emozione, ogni esperienza, ogni evento forniscono un’occasione per l’apprendimento e vengono utilizzati per promuovere lo scopo finale in entrambi i metodi di allenamento. Il grande yogin Svâmî Râma Tîrtha dice:
Vizio e virtù, gioia e dolore
erano i pioli della scala verso la stanza dell’Amico.
Ora puoi bruciare la scala,
non scenderò mai più.
La ricerca, o vicâra, può essere praticata sempre e da chiunque, e può iniziare in qualsiasi momento, ma dovrebbe assumere una forma ben definita. Sarebbe opportuno dedicarle un particolare momento della giornata, e anche una determinata quantità di tempo. Sarebbe utile, a questo scopo, consultare i testi classici, che dovrebbero essere studiati per primi. La seguente meditazione, che è un’antica preghiera delle Upanisad, potrà meglio orientarci:
OM. Dall’irreale conducimi al reale,
dall’oscurità alla luce,
dalla morte all’immortalità. OM.
Questa meditazione può essere praticata al mattino o alla sera, o in entrambi i momenti ed è utile richiamarla alla mente durante tutto il corso della giornata. Rimanete rilassati e riflettete sul suo significato tutte le volte che potete. Soprattutto, e mi rifaccio alla mia esperienza personale, non prendetevela con la vostra mente se non è in grado di accettare il significato della meditazione o di concentrarsi su di essa immediatamente.
C’è una strofa di un testo sanscrito che dice:
La Sua forma non è oggetto di visione,
nessuno Lo vede con gli occhi,
ma coloro che mediante la riflessione Lo comprendono,
attraverso la pura buddhi diventano immortali.
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