Dario Chioli
Percorsi nella qabbalà

Immagini di
Mirjana Zarifovic

 


 

INDICE

[tra parentesi quadre gli inserti]

 
Cedere alla qabbalà
Il mequbbàl è in genere un ebreo
[Torà, Talmùd, Midrashìm]
Un sogno, un ricordo e altre singolari ragioni
[Sull’alfabeto ebraico]
Chiamare la Shekhinà
[Ordine e principali denominazioni delle sefiròth e loro corrispondenze con i quattro mondi nel corpo dell’uomo primordiale (’Adàm Qadmòn)]
Santifica il tuo luogo
[Il sabato]
Unifica l’intento
Scegli
Usa la forza dell’Ignoto
Permuta il tuo io in Dio
Kawwanà e yechidà
L’esperienza della yechidà
I nemici della yechidà
La yechidà come segreto della passione
Seguire la passione d’amore
Un metodo apparentemente semplice
Amare senza diritti
L’origine del mondo e le qelippòth
Le nostre ordinarie qelippòth
Le vittime della qelippà mistica
Si possono comprendere le sefiròth?
Comunicazione mediante affinità
Comunicazione mediante il simbolo
Amanti tristi ed amanti gioiosi
La reintegrazione attraverso le sefiròth
Le quattro sfere di percezione
Davanti alla Torà
Far cantare la mente
Il miracolo dei nomi
[Nota sui nomi divini]
La posizione di Mosè
La posizione di Elia
Il maestro celato
 
Riferimenti bibliografici

 


 

PASSI SCELTI

Biqqésh Qohèleth limetzò divre-chéfetz
wekhathùv yòsher divré ’emèth
Cercò Qohèleth di trovare parole che piacessero
e di scrivere il giusto in parole di verità.
(Qohèleth 12, 10)

Cedere alla qabbalà

Prima impressione di chi, non essendosi mai occupato di qabbalà, apra un libro serio su di essa, potrebbe essere una sorta di disperazione. Tanta è la varietà di vie, di insegnamenti, di termini tecnici, tanto astrusi risultano i testi, e così interconnessi con la lingua ebraica, che la mente ne viene quasi soffocata.

E può considerarsi questo il primo insegnamento da trarne: se indaghi la qabbalà al fine di comprendere la storia e la filosofia della qabbalà, non entrerai mai nella qabbalà. Si entra nella qabbalà non già afferrandola, ma cedendo ad essa. Qabbalà viene infatti dalla radice QBL e vuol dire "ricezione". Quando cedi, la qabbalà s’instaura in te.

Ma a che cosa cedi?

Come indica la stessa radice QBL se viene interpretata come acronimo (metodo comune tra i cabbalisti, che lo chiamano notariqòn), si ha qabbalà quando cedi al Santo, Qadòsh, benedetto egli sia, che sta nel tuo cuore, Be-Lév.

 

Il mequbbàl è in genere un ebreo

Io non sono forse definibile come un vero e proprio mequbbàl (cabbalista), non tanto nel senso che negherei io stesso di esserlo (come non negherei di essere cristiano, islamico, indù, taoista) o che avverta che me lo neghi il cielo, ma perché i mequbbalìm (cabbalisti) medesimi difficilmente riconoscerebbero nelle mie posizioni qualcosa che secondo le loro proprie categorie sociologiche e religiose mi identifichi appieno come un loro confratello.

Il mequbbàl è infatti in genere un ebreo, che trae sensi mistici ed esperienze illuminative dalla propria pratica religiosa, estremamente ricca di precetti (tradizionalmente 365 come i giorni dell’anno) e divieti (248 come le membra del corpo umano), abbinata allo studio della Torà, degli insegnamenti raccolti nel Talmùd e nei Midrashìm e di opere specificamente esoteriche di cui le due più note (perlomeno come titolo) sono senz’altro il Séfer yetzirà (Libro della formazione) ed il Séfer ha-zòhar (Libro dello splendore).

Ora, anche se tutto ciò suscita incondizionatamente la mia solidarietà, il mio interesse ed il mio rispetto, e benché abbia passato molto tempo occupandomi di cose ebraiche, io però sono nato in una famiglia cristiana, e di conseguenza non mi sono mai né proposto né immaginato di conformarmi alle complicate prescrizioni del Talmùd. L’idea poi di una qualsiasi conversione non mi sfiora neanche il pensiero, essendo ben convinto che Dio parla tutte le lingue dello spirito, e che non c’è reale opposizione tra di esse, per cui, mentre sarebbe lecito, quando se ne fosse capaci, parlarle tutte, è invece fondamentalmente illecito rinnegarne anche una sola.

Questo ho detto per chiarezza, affinché non sembri che io mistifichi inducendo altri in errore. Ciò premesso, ho comunque dal mio punto di vista parecchie ragioni per parlare della via dei mequbbalìm.

Intanto, mentre per pensare un mequbbàl privo di profondo interesse per la Torà o per i testi esoterici ci vuole una gran fantasia, l’interesse per il Talmùd non è sempre della stessa intensità.

Questo ha permesso che ripetutamente nascesse passione per la qabbalà anche in ambito cristiano, dapprima nel Rinascimento con Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), Johann Reuchlin (1455-1522), Enrico Cornelio Agrippa (1486-1535) e parecchi altri, quindi nei secoli seguenti tra molti esoteristi di varia ascendenza (che attinsero in particolare ai due volumi della Kabbala Denudata pubblicata negli anni 1677-1684 da Christian Knorr von Rosenroth).

In effetti il divario polemico tra cristiani ed ebrei tanto più tende a crescere quanto più si prende come riferimento il Talmùd, il cui punto di vista è su talune questioni assai difforme dal punto di vista cristiano (anche se molto del materiale in esso contenuto gioverebbe ai cristiani per meglio conoscere le origini ed il significato del cristianesimo stesso). Al contrario l’estrema ricchezza e varietà simbologica dei testi esoterici di per sé spinge la curiosità intellettuale dello studioso a confrontare e ricercare una possibile concordanza tra le categorie cabbalistiche e quelle teologiche cristiane, altrettanto complesse e multiformi e similmente incomprese dal volgo, incolto o erudito che sia.

È infatti tale curiosità ad avere da principio spinto anche me a questi studi.

L’intento che mi propongo non è comunque di aggiungere il mio ai tanti tentativi di sintesi culturale. Più semplicemente, vorrei riuscire a mostrare qualcuna delle luci che la qabbalà può generare nell’esperienza interiore di chi, anche non ebreo, ad essa con sincerità si approssimi.

Non è cosa da poco, e se dovessi confidare nelle mie sole capacità individuali, m’arrenderei prima di cominciare.

Non m’arrendo, però, nella consapevolezza che Dio è più grande dei suoi nomi e delle sue manifestazioni, ed è la luce di tutti i cammini (’ensòf ’Or, luce infinita, dice la qabbalà), anche di quelli che furono dimenticati o non sono stati ancora mai percorsi.

Invoco pertanto la sua Presenza, Shekhinà, affinché purifichi il mio cuore per potervi, poi, dimorare. Senza di ciò, infatti, vano è scrivere di qabbalà.

 

Un sogno, un ricordo e altre singolari ragioni

Mi ricollegano alla qabbalà anche alcune cose molto particolari.

In primo luogo c’è il Libro, ovvero un sogno, o immagine entrata chissà quando nella mia memoria, di me in una piccola stanza piena di libri che si alzano fino al soffitto da tutte le parti, perso nel Testo, astratto dal mondo. Non esiste questo mondo, è il messaggio di quest’immagine. Tutto è gioco, linguaggio cifrato, passa dunque dietro le quinte inseguendo le tracce dell’astratto.

In secondo luogo, c’è un ricordo di me che a Praga pongo un sassolino sulla lapide della tomba di Rabbì Yehudà Löw (1512-1609): non è quasi nulla (sapevo di Rabbì Löw dalla lettura di Meyrink), ma è rimasto l’unico mio pellegrinaggio, e nel mio sentire ha conservato una forte magnetica risonanza. Forse un’anima del passato, una scintilla dei mequbbalìm s’aggira nel labirinto della mia natura.

In terzo luogo, c’è il segreto della lettura, che permette al mequbbàl di chiamare Dio in mezzo alla profanazione del mondo, di mantenere un filo diretto sovrannaturale all’interno della sua ordinarietà, nella sua pressoché inevitabile solitudine.

Se vuoi conoscere tale segreto, allora siediti, apriti alla Torà e incomincia a leggere nel libro della Genesi l’inizio del primo versetto: Bereshìth barà ’Elohìm (In principio creò ’Elohìm). Sentirai e vedrai che ogni cosa ordinaria uscirà dalla tua attenzione, che svaniranno i tuoi errori, le tue tristezze. Se infatti sai davvero leggere, la tua percezione si trasformerà: in Bereshìth (In principio) questo mondo verrà distrutto, in barà (creò) uno nuovo ne verrà creato, mentre in ’Elohìm (nome del creatore) potrai riconoscere il Luogo dove sei veramente seduto.

In quarto luogo, c’è l’oblio che copre il nome ebraico nella società cristiana. E ciò che è coperto non è per tutti, è solo per chi lo cerca, e per me nato cristiano il Gesù ebreo, il Gesù che parla le parole dei maestri del Talmùd e, di là da esse e dentro di esse, quelle dell’Altissimo (’El cElyòn), di cui è sacerdote alla maniera di Malkitzèdeq (cfr. Genesi 14, 20; Salmi 110, 4; Lettera agli Ebrei 5 e segg.), è il Gesù più segreto e più vero, il figlio che è più caro al padre perché nessun altro lo ricorda.

In quinto luogo, essendo poeta, dalla mia prima adolescenza qualcosa, per impenetrabile grazia del cielo, senza che io lo meriti, fluisce in me. Conosco dunque benissimo, perché mi appartiene, quel mettersi in attesa, comune ai mequbbalìm, che cercando un’ispirazione celeste taglia fuori la mente ordinaria, e l’esaltazione, lo stupore, il pianto di una parola precisa che ferisce d’un amore senza oggetto il tuo cuore, la tua carne.

In sesto luogo conosco bene ciò che si potrebbe chiamare la corporeità del pensiero, quanto spessore e sangue possa avere la mente per chi, nutritala adeguatamente, ne ha sperimentata una certa trasformazione. E proprio a questo, mi pare, vuol portare lo strano libro dello Shicùr qomà, Misura della statura [di Dio]: ci si commisura con le immaginate dimensioni di Dio, non già per un folle desiderio di limitarlo, bensì per trasformare la mente, perdendo in lui, dissolti e franati nel confronto, la misura propria, il proprio io.

Questo ci impone infatti la passione del nostro cuore per la Shekhinà di Dio, dal cui Pensiero (Machashavà) la mente tutta è offuscata. E pazzo è certamente chi in tale orgia sacra ragiona.

 

Chiamare la Shekhinà

Per entrare nello spirito della qabbalà, la Shekhinà di Dio deve entrare nello spirito nostro.

E per questo la si deve invitare, la si deve chiamare.

«Era mezzanotte. Il Besht gli tese il Libro dello Splendore, il Zòhar. “Sai leggere? - Sì, certo. - E allora leggi!” Il Maggìd obbedì. "Non è così che si legge, lo interruppe il Besht. Sai decifrare i segni ma il tuo sapere manca di anima”. Quella fu la svolta. Di colpo la stanza si illuminò. Il Maggìd si ritrovò sul Sinai, vide la fiamma e comprese a che punto gli mancasse» (Wiesel, Celebrazione hassidica, p. 62).

Per ottenere, dietro i segni, l’anima dei segni, bisogna che venga. Bisogna chiamare la Shekhinà. E per chiamare la Shekhinà bisogna fare silenzio.

Ma cosa s’intende per silenzio?

Quando ogni nostro pensiero ed atto ci appaiono meccanici, ogni nostra affermazione falsa, ogni certezza un espediente teatrale, allora, cessando di dar credito e attenzione a tutto ciò, sperimentiamo un distacco interiore che può mostrarci il passaggio verso l’Ignoto. E questo retrocedere dell’attenzione dal noto all’Ignoto è il vero silenzio. E il passaggio che così ci si mostra è la porta della Shekhinà.

Essa discende dalle profondità immanifeste del Nulla (’Ayin, ’YN) fin dentro il nostro nulla, vivificando e potenziando il nostro germe d’Ignoto. Nessuna cosa però deve essere da noi trattenuta di fronte a lei, affinché nessun aspetto dell’io sfugga con nostro danno alla trasformazione.

Se infatti si è aperta la porta della Shekhinà, una inconsueta sensazione di interiore vastità pervade il nostro essere. Aspetti di noi di cui ignoravamo persino l’esistenza si ridispongono destrutturando e ristrutturando la nostra dimensione interiore per scopi che ignoriamo e che pur tuttavia ci attraggono irresistibilmente.

Essa manifesta ’Ensòf (’YNSWP), l’Infinito, e le doniamo tutto, perché in ogni cosa appare lei. Quanto ce ne viene è infatti talmente intenso che di fronte a lei non possiamo non dimenticare noi stessi.

Si riveste di ’ensòf ’Or (’YNSWP ’WR), Luce infinita, e ne sentiamo, fuor di noi stessi e del nostro io, la dolcezza.

E la sua luce è la luce dell’intensità, mediante cui l’esperienza s’illumina di lume proprio, autoevidente ben al di là di ogni possibile interpretazione.

Essa scende poi al capo, e vi manifesta la Corona suprema (Kèther celyòn), la prima delle divine sefiròth (descrizioni, enumerazioni) mediante cui il sommo Pensiero (Machashavà) pensa il mondo e noi stessi. E quel che così sappiamo non è di questo mondo.

Sentiamo allora i capelli rizzarsi sul capo, e ci attraversa dall’alto in basso l’onda armonica di una vibrazione nervosa che ci scuote e scioglie le nostre tensioni, al contempo scaldandoci e rinfrescandoci, e svelandoci così la misteriosa natura energetica del corpo della Shekhinà.

Essa giunge fino al cuore, in cui manifesta la Bellezza (Tifèreth), sesta sefirà, e quel che così sentiamo non è di questo mondo. L’esperienza della Shekhinà ha infatti ingenerato in noi la percezione di un nuovo mondo meraviglioso tutto da scoprire, mostrandoci al medesimo tempo per contrasto l’irrealtà degli oggetti e delle modalità della percezione ordinaria.

Ha instaurato nel nostro vivere la Regalità (Malkhùth), decima sefirà, e quel che perciò viviamo non è di questo mondo. C’è d’ora innanzi in noi un segreto di percezione che niente e nessuno può strapparci. Viaggiatori dell’Ignoto, iniziamo ad apprenderne l’assoluta maestà, a individuarne con stupore i complessi disegni dentro le vicende nostre e dei nostri simili.

Inizialmente tuttavia, quando seguendo le prime ispirazioni della Shekhinà abbiamo concepito il desiderio di porre le fondamenta del nuovo mondo interiore e ci siamo pertanto finalmente inoltrati nel nostro cammino sacro, ovvero siamo giunti sulla soglia della nona sefirà, Fondamento del mondo (Yesòd colàm), allora dobbiamo considerare che essa ha anche nome il Giusto (Tzaddìq), e che pertanto dobbiamo seriamente proporci di espellere dalla nostra vita, per quanto possiamo, tutto ciò che col Giusto contrasta.

Solo tale retta intenzione (kawwanà) ci potrà davvero aiutare nel nostro fine di rigenerazione, inducendo in noi una lenta ma costante trasformazione delle facoltà mentali, emotive e percettive.

Se infatti la Shekhinà è l’agente di tale trasformazione e come tale prima o poi si rivela, essa non può però, una volta che ci sia nota, agire in noi contro la nostra volontà. Fondamento di questa nostra prassi deve perciò essere la ricerca del silenzio del nostro io, la disidentificazione dai demoni personali che lo compongono, cioè dall’esperienza delle qelippòth (scorze, gusci), la quale a causa della nostra natura decaduta si è sostituita all’esperienza gloriosa di Malkhùth, ingenerando in noi un’illusione di personalità multiforme e separativa.

Di fronte all’Amato tale personalità non deve e non può sussistere perché, come dice il Cantico dei Cantici (8, 6), impareggiabile guida per la distruzione delle qelippòth e la reintegrazione di Malkhùth, "duro come la morte è l’amore, aspra come il mondo infero la gelosia" (cazzà khammàweth ’ahavà qashà khishe’òl qin’à).

Una volta che ti si è resa nota, insomma, la Shekhinà vuole essere l’unico oggetto della tua attesa.

Non è dunque la qabbalà un buon mezzo per procurarsi vantaggi od onori, materiali o spirituali, né una cura per i pazzi, o un divertimento per distrarre dalla noia. La qabbalà è la strada dove il tuo cuore, lév, si fa kavòd, gloria, ma non gloria tua, bensì gloria che il tuo specchio riflette, gloria dell’Altissimo.

Mezzi della qabbalà sono l’equilibrio, l’attenzione e la passione amorosa.

Il suo fine è sovrumano.

Infatti invocare la Shekhinà è invocare la venuta di Dio, che ha come velo la morte dell’impurità. E se nel fine di chi chiama predominasse l’impurità, questi chiamerebbe la propria stessa morte, se potesse davvero invocare la Shekhinà.

Per sua e nostra fortuna però il mondo è creato dando preminenza alla misericordia sul giudizio, quindi non lo potrà fare, lo sguardo sarà stato distolto da lui e perciò la sua invocazione non sarà veduta.

Correrà tuttavia egualmente un rischio, perché qualcosa potrebbe venire in risposta alla sua richiesta, che non sarà la Shekhinà, ma l’illusione di una qelippà, impura scorza proveniente da quell’altra parte (sitrà ’achrà) che è all’origine di tutte le follie e di tutti i fantasmi.

 

Santifica il tuo luogo

Tra le prime cose che vanno apprese, dunque, se si vuole ottenere una retta comprensione, c’è questa: devi santificare il tuo proprio luogo, il luogo cioè dove sei veramente, la tua dimensione interiore, la camera del tuo cuore, ovvero chiedere a Dio di poter fare sì che il tuo luogo venga santificato dal suo Luogo.

Maqòm, Luogo, è infatti uno dei nomi di Dio, perché, secondo il Bereshìth Rabbà (LXVIII, 9), uno dei più importanti Midrashìm, "il Santo, Egli sia benedetto, è il Luogo del mondo, e non il mondo il suo luogo".

Tu devi perciò abbattere le barriere che isolano il tuo luogo dal suo Luogo, il tuo cuore costantemente chiedendo al Santo (Qadòsh) che ti comunichi un poco della sua santità (qedushà) affinché, così stabilito il tuo interiore santuario (qòdesh), la sua Parola (Davàr, DBR), possa infine abitarvi costituendovi quel più segreto àdito (devìr, DBYR) dove si attua l’amplesso del Padre con la Madre, cioè della sapienza (Chokhmà, seconda sefirà) con l’intelligenza (Binà, terza sefirà), dai quali viene generata la vera conoscenza (cath).

Diverso è infatti il caso in cui si invoca Dio nell’afflizione ovvero lo si loda nella gioia, dal caso in cui lo si invoca specificamente per ottenerne conoscenza.

Non vi è limite per la prima sorta d’invocazione o lode, non è infatti mai sbagliato volgersi a lui, neppure se si è oppressi dalla colpa o dall’offuscamento, e tanto meno se si è affascinati dal godimento delle gioie del mondo.

Ma per ottenerne luce per l’intelletto, bisogna disporsi adeguatamente, lavare bene il proprio vaso, aprendolo alla luce purificatrice del giorno, togliendone quanto più possibile le impurità, e mettendolo in un luogo adatto perché possa ricevere il santo vino del Sabato.

 

Il sabato, in ebraico Shabbàth, è identificato, in quanto in esso si celebri la divina irruzione nel tempo, con la Shekhinà, Presenza divina e sposa interiore, talché il venerdì sera viene celebrata dagli ebrei la qabbalàth Shabbàth, il ricevimento del Sabato, ovvero della Shekhinà, e vi è una tradizione secondo cui un’anima addizionale viene concessa all’uomo la vigilia del sabato, e tolta al suo termine. Il mantenimento non occasionale ma costante di tale anima che unifica il temporale con l’eterno (yechidà) è il fine dell’interiore cammino dei mequbbalìm.

 

Unifica l’intento

Se dunque sei preda dell’invidia, la tua mente ne sarà offuscata, come lo sarà se mangi o bevi troppo, o se troppo indulgi alla collera, o a qualunque altra passione. Pertanto, se vuoi ottenere da Dio la conoscenza, devi sopportare di passare per una fase di purificazione.

Invoca quindi Dio nella tua oscurità, affinché egli ti tragga alla sua luce.

Cerca di far emergere, dal tuo cuore più che dalla tua bocca, un’invocazione come questa, semplice e difficile:

Non so nulla, sono in balia delle passioni, non controllo nulla e non so dove andare, mi volgo verso l’Ignoto e lui solo chiamo, perché tracci una strada verso di sé nel mio cuore, una strada di luce nell’oscurità del mondo.

Questa preghiera, o altra simile, funziona, eccome, ma devi ben guardarti dall’associarle alcunché. Se cerchi l’Ignoto, a lui solo ti devi protendere, astenendoti dal confonderlo col noto, con l’ordinario.

Non devi accettare nulla di cui tu non sia, per via diretta, divenuto nel tuo cuore più che certo, perché solo quella è la parola dell’Ignoto.

E questa parola può sembrare che tardi, che non venga abbastanza presto, ed allora avrai timore che non verrà mai, o che non basteranno le tue forze all’attesa.

Ma questo non è in alcun modo vero, la tua preghiera è inefficace solo se le associ le tue ambizioni mondane, altrimenti è più forte di tutto. Ci vuole tempo però perché le qelippòth, ovvero i gusci d’oscurità che nascondono la luce, le fonti delle tue nevrosi (soprattutto di quelle di cui non ti accorgi facilmente), vengano frantumate. Ma nel frattempo la tua invocazione le erode, le incrina, facendotele riconoscere. Perché se chiami l’Ignoto nell’oscurità, ben presto vedrai, in virtù dell’Ignoto che comincia a smuoverle, queste false luci, queste attrazioni da circo.

Ed è questa una prima parola di Dio, una domanda che ti viene rivolta: Chi vuoi che ci sia nel tuo luogo? Io o loro? Chi è colui che invochi?

Tu non potrai rispondere come potresti aver programmato nella tua immaginazione, perché non è la tua bocca a rispondere, ma la tua scelta di tutti i giorni, la quale scelta di tutti i giorni è praticamente ignota persino alla tua stessa mente, emergendo in modo particolarmente evidente solo in alcune circostanze straordinarie e difficili.

Non è invero la costante presenza nella tua mente o sulla tua bocca di parole o pensieri religiosi od esoterici che importa, ma la costanza della parola di Dio nei tuoi atti. E la parola di Dio è principalmente cosa, ragione applicata (davàr infatti vuol dire sia "parola" che "cosa"), e si mostra nell’azione.

 

Scegli

Ti puoi accorgere, se fai attenzione, che ti vengono di tanto in tanto proposte scelte tra due alternative, una delle quali, qualunque apparenza possa rivestire, ha radici nel mondo della conoscenza e t’avvicina a Dio, mentre l’altra è una forza delle qelippòth.

Non c’è mai nulla di irrevocabile, molti errori possono essere superati, però ogni volta che scegli una qelippà la tua mente si ottenebra, mentre se scegli Dio nascono storie che ti fanno crescere.

Queste storie che ti fanno crescere non sono tanto storie di comodità, di gioia interiore, quanto storie di ostacoli, di prove da superare, non particolarmente gloriose, spesso di aridità e povertà spirituale, di apparente occultamento nella vita mondana. E che fosse apparente lo vedrai poi, lì per lì ti sembra verissimo.

Tu ti senti sempre meno spirituale.

Ed anche questa è una parola dell’Ignoto, che ti chiede: Vuoi sentirti spirituale, o vuoi me? Io sono geloso, non tollero concorrenti. Se però lo desideri, mi ritirerò, e rimarrà con te l’illusione, la qelippà della spiritualità.

Ma questa domanda ti viene posta in forma di enigma, di labirinto, un enigma a cui si risponde col cuore, un labirinto da cui si esce con tutto il proprio essere. La richiesta apparentemente semplice di scegliere tra Dio e quello che hai creduto essere la spiritualità non ti verrà mai fatta in forma così apparentemente chiara. Puoi cavartela solo con la sincerità del tuo intento (kawwanà), che ti porta alla percezione intuitiva del divario tra ciò che sembra spirito e ciò che lo è davvero.

 

Usa la forza dell’Ignoto

Infatti prima l’Ignoto ti darà una forza, e poi ti chiederà di usarla per cercare lui. Se tu vorrai usarla per più scopi la perderai, perché è una forza la cui unica origine e destinazione è l’Ignoto, una forza la cui natura è affermare l’unità di Dio: ’Adonày ’echàd, Il mio Signore è uno.

Il fine di questa fase di purificazione è dunque l’unificazione dell’intento, la rinuncia ad associare altre richieste a quella dell’Ignoto. Questa fase porta alla consapevolezza che tutto il resto è un’aggiunta, ma la cosa fondamentale è una sola, e senza di essa non si avrà nulla.

Ciò non significa che cessino di sorgere desideri o distrazioni, né che l’uomo sia ormai diventato un saggio libero dalle passioni; significa invece che ha scorto la propria povertà, ha visto che di fronte all’Ignoto non è nulla, che la sua mente non ci arriva, il suo cuore non ci arriva, il suo corpo non ci arriva, e allora invoca l’Ignoto col suo proprio stesso nome: nulla.

Ma nella qabbalà uno dei nomi di Dio è proprio questo: ’Ayin, Nulla.

 

 

* * *

 

L’esperienza della yechidà

Per capire cos’è la yechidà bisogna riassumere almeno brevissimamente le basi elementari della concezione ebraica dell’anima. Il Bereshìth Rabbà (XIV, 9) riporta cinque nomi diversi per l’anima. Tre sono di uso più co­mune: nèfesh, che è l’anima vitale (talora assimilata al sangue), la cui assenza trasforma il corpo in cadavere; rùach, che è lo spirito (Rùach ’Elohìm è lo Spirito santo), principio plastico della trasformazione e del movimento, luogo della scelta e degli effetti della scelta tra bene e male; neshamà, che è l’anima nel suo aspetto superiore, polo intellettuale ed immortale dell’essere di cui bisogna in qualche modo acquisire consapevolezza. A questi tre si aggiungono chayyà e yechidà. Chayyà ("vita") si desta come vivificazione dell’universo interiore, come acqui­sita certezza d’immortalità, successivamente al risveglio delle facoltà di neshamà, e yechidà ("l’unica") si desta per ultima, allorché ha inizio il processo di adesione ed unificazione a Dio.

Kawwanà e yechidà sono intimamente congiunte, in quanto senza kawwanà non possono destarsi le facoltà superiori dell’anima, di cui yechidà rappresenta il coro­namento, il fine unitario supremo. Yechidà è la forza dell’unificazione (yichùd), l’attuazione nel santo Luogo (Maqòm), ovvero entro la profondità di Dio, dell’unione celebrata nel Cantico dei Cantici. Ed è una forza che si esalta nella solitudine (yechidùth), in quanto è la forza di quei solitari (yechidìm), a cui - secondo il Salmo 68, 7 - Dio, che è Uno (’echàd), "concede una dimora in cui stare".

 

  Chayyà (immagine di Mirjana Zarifovic)

Chayyà si desta come vivificazione dell'universo interiore,
come acquisita certezza d'immortalità...

 

I nemici della yechidà

Della yechidà parla Davide nel Salmo 22, 21:

Hatztzilà mechérev nafshì
Scampa dalla spada la mia
nèfesh,
miyyad-kèlev yechidathì
dalla mano del cane la mia
yechidà.

E ritorna a parlarne nel Salmo 35, 17, invocando Dio contro i suoi nemici:

’Adonày kammà tir’è
Signore per quanto starai a guardare?
hashivà nafshì mishsho’ehèm
Salva la mia
nèfesh dalle loro devastazioni,
mikefirìm yechidathì
dai leoncelli la mia
yechidà.

In ambedue i casi "yechidathì" è reso nella Septua­ginta (la traduzione ebraica dell’Antico Testamento in greco) con "tèn monogenê mou" ("la mia unigenita"), e nella Vulgata (la versione latina di San Girolamo) con "unicam meam". E in ambedue i casi yechidà è posta in parallelo con nèfesh ("psykhé" in greco, "anima" in la­tino). Tutt’e due sono in pericolo, l’una, nèfesh, di spada e devastazioni, l’altra, yechidà, per la potenza del cane ed i giovani leoni.

Ora, che rappresentano per noi tali pericoli?

La spada e le devastazioni rappresentano la violenza e la menzogna, che deturpano sia l’anima che il corpo; la mano del cane ed i leoncelli rappresentano l’idolatria e l’orgoglio, che impediscono la percezione dell’Unità di­vina su cui è formata la yechidà. "Cane" è infatti detto nella Bibbia (Deuteronomio 23, 19) il prostituto, colui pertanto che vende se stesso al miglior offerente, ed i "leoncelli" sono i dèmoni ruggenti ed aggressivi delle passioni con cui l’inesperto si compiace di identificarsi. Solo chi cerca di evitare la violenza e la menzogna, ed ha riconosciuti come follia la propria idolatria ed il proprio orgoglio, è guidato da una retta intenzione (kawwanà) ed ha svegliato la yechidà, che ora in lui opera, quand’anche apparentemente non se ne accorga.

Infatti, fintantoché le passioni affollano la mente, la yechidà non viene da questa riconosciuta, perché la "mano del cane" è troppo impura, i "leoncelli" troppo in­vadenti. Innumerevoli unificazioni (yichudìm) vengono tuttavia compiute all’insaputa della mente, dirette dal cuore. Salvata infatti la propria yechidà, secondo il salmo riportato poco sopra, dalla mano (kaf, sinonimo di yad e al contempo nome della lettera K) che pretende un com­penso per prostituirsi, ovvero liberato dalla lettera kaf di kèlev (KLB, il cane), l’uomo ritrova lév (LB), il proprio cuore, l’intimo segreto di purezza che si manifesta, se as­siduamente ricercato, nel fondo di ogni idolatria.

 

 

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Davanti alla Torà

Qualunque sia la dottrina che utilizza come strumento logico e interpretativo, il mequbbàl parte dalla Torà. Quando si pone nel suo cuore davanti ad essa, cessa di essere qualcosa, il suo corpo non fa più resistenza, la sua mente non può più parlare le parole di questo mondo.

Se ti immergi nei segreti della Torà anche per un solo istante, sperimenterai in quell’istante che la tua mente ordinaria tace. Altre logiche, altre configurazioni operano in te, quando ti siedi, stanco di te stesso, di fronte a una sua frase, a una sua parola, a una sua lettera.

Il proliferare di follie scritte e dette sulla qabbalà non significa dunque che sia difficile immergersi nella Torà. È invece difficile, e molto, non sprecare quel che subito vi si trova in una sterile esaltazione che non approderà a nulla. L’io infatti per sopravvivere s’abbraccia al suo carnefice come ad un amante, trasformando lo studio in autoesaltazione, appena questo mondo t’ha distratto per un attimo.

E questo mondo ti distrae, perché se così non fosse, porresti troppo presto in dubbio la sua legge.

Ma se tu ti siedi davvero davanti alla Torà, anche se le tue informazioni sulla qabbalà sono dapprima vaghe, otterrai qualcosa. Quanto otterrai e cosa, dipende dalla serietà e dall’intento (kawwanà).

Puoi anche trovare la tua fine. Di quattro infatti che entrarono nel Pardés, uno morì, uno impazzì, uno si perse e solo Rabbì cAqivà tornò sano e salvo (cfr. Talmùd, Chagigà 14b).

E Pardés (PRDS, da cui il nostro "paradiso"), "giardino", è l’acronimo di peshàt, senso letterale, rèmez, senso allegorico, deràsh, interpretazione, e sod, segreto. Uno fu dunque ucciso dalla lettera, un altro si perse nel labirinto delle corrispondenze, un terzo divenne schiavo delle proprie escogitazioni e solo Rabbì cAqivà, che possedeva il segreto dell’intenzione, sopravvisse.

Infatti sod (SWD), "segreto", può interpretarsi come acronimo di "sod u-deràsh" (SWD W-DRSh), "segreto e interpretazione": senza sod l’interpretazione induce in errore, ma insieme a sod conduce alla meta.

 

Far cantare la mente

L’uso testé fatto dell’acronimo (notariqòn) è un esempio delle tecniche di manipolazione delle lettere ebraiche che vengono utilizzate nella qabbalà al fine di distrarre la mente dalle proprie categorie ordinarie, perché possa in essa senza costrizioni fluire l’incostrittibile spirito della Torà. Altri esempi ne abbiamo fatti in precedenza, anche per quanto riguarda la considerazione del valore numerico delle lettere (gimàtriyya) o la loro permutazione (tzerùf).

Tali tecniche si prestano ovviamente all’abuso, se chi le utilizza non è un mequbbàl. In questo caso, d’altra parte, non portano a nulla. Per quanto infatti l’ebraico sia costituito di sole consonanti ed acronimi e permutazioni pertanto, agendo in esso, tendano a risultare più significativi di quanto non accadrebbe con una lingua occidentale - in quanto operano direttamente sulle radici verbali senza le limitazioni della vocalizzazione scritta - tuttavia la loro ragion d’essere non è filologica, bensì sta tutta nella disposizione interiore di chi rinuncia per un momento ai meccanismi consueti volgendosi verso l’Ignoto, da esso cercando imprevedibili illuminazioni.

Come un artista che cerchi nell’ispirazione quale elemento debba accompagnarsi a quelli che fanno già parte della propria opera, così il mequbbàl non cerca nella Torà l’eco di proprie già note conoscenze, ma una rivelazione novissima che tramite la parola lo trasformi. Non è un intento storico o dottrinale a condurlo, tali intenti ai suoi occhi non valendo quasi nulla; lo conduce invece la consapevolezza del mistero, la speranza che la sua mente possa infine cantare, e che il suo canto almeno per una volta intoni una nota così bella da poter egli morire senza rimpianto alcuno.

 

 

* * *

 

La posizione di Mosè

Vogliamo infine analizzare due posizioni interiori, complementari l’una all’altra, espresse da due posizioni di preghiera, che chiameremo quella di Mosè e quella di Elia.

La posizione di Mosè a cui alludo è quella che viene descritta in Esodo 17, 11: "e fino a quando teneva Mosè la sua mano alzata, Israele prevaleva; ma se abbassava la sua mano, prevaleva cAmaléq".

Mosè ha la mano alzata perché, salito sulla cima della collina, nella mano tiene la verga di ’Elohìm (17, 9), quella stessa che si tramutò in serpente (4, 3-4; 7, 8-12) e con cui Aronne tramutò le acque del Nilo in sangue (7, 17-21) e Mosè fece uscire l’acqua dalla roccia (17, 6). Tale verga è in ebraico mattè (MTethH), che vale 54 quanto làkhad (LKD), “prese, scelse, catturò” o lèkhed (LKD), “cattura”. Infatti tale verga è segno che Dio lo ha scelto, lo ha preso, e che come Dio lo ha catturato così egli cattura per suo mandato le forze celesti affinché operino sulla terra.

Quando Mosè si stanca, Aronne e Chur lo fanno sedere e gli sostengono le braccia, poiché nelle sue mani alzate sta il segreto della vittoria d’Israele: "e furono le mani sue fermezza (wayehì yadàw ’emunà) fino al calar del sole" (17, 12).

Mosè dunque alza la sua mano, e con essa matté ha’elohìm, la verga sacra; poi forse, stanco, sostiene un braccio con l’altro, ed infine altri glieli sostengono ambedue. Ma chi glieli sostiene? Il suo compagno Aronne, che è la sua bocca (come si dice in Esodo 4, 16), da una parte, e dall’altra Chur (ChWR), il cui nome è anagramma di rùach (RWCh), lo spirito. In questa unione della preghiera e dello spirito, che insieme conferiscono fermezza (’emunà), Israele è vittorioso; nella loro separazione perde.

Ma l’espressione yadàw ’emunà (YDYW ’MWNH), "le sue mani fermezza", vale 132 quanto qòvel (QBL), "opposizione". Operando una tale sostituzione, il testo significherebbe: "e ci fu opposizione fino al calar del sole". Un ulteriore possibile significato del passo può dunque esser visto nell’opposizione tra la bocca dell’uomo, Aronne, e lo spirito, Chur (rùach), quasi che il compito a Mosè imposto dal giudizio divino fosse di lottare con la preghiera contro lo stesso spirito di ’Elohìm per salvare Israele, che senza tale lotta, implicita nel suo stesso nome (Yisra’él, dal verbo sarà + ’El, che vuol dire "Dio lotta" ovvero "lotta con Dio", cfr. Genesi 32, 29), non potrebbe sussistere.

Del resto i versetti 17, 15-16 riportano che "fece Mosè un altare e chiamò il nome suo: YHWH mia bandiera, e disse: Mano sul trono di Yah! Guerra per YHWH contro cAmaléq di generazione in generazione!" (wayyivèn Moshè mizbéach wayyiqrà shemò YHWH nissì - wayyòmer ki-yàd cal-kés Yah milchamà leYHWH bacamaléq middòr dor). La mano che Mosè aveva alzata è dunque la stessa che sta sul trono di Yah, per giuramento forse ma anche per pegno d’alleanza contro il nemico.

Ma se l’uomo non alza la sua mano al trono di Yah, che è Chokhmà, la Sapienza, oppure se la sua guerra non è in nome di YHWH, ovvero non ha cuore, non scuote la sua natura più intima, non risponde perciò ad un intento sacro (il cuore e in genere tutte le viscere in quanto in esse corporalmente si riflettono le più intime e segrete emozioni dello spirito essendo collegati alla sefirà Tifèreth, detta quindi anche Rachamìm, Viscere, a cui è propriamente collegato il nome divino YHWH), la lotta con Dio non essendo attuata, neppure Israele esisterà, la guerra verrà perduta.

Invece Mosè lotta coi nomi e i prodigi divini contro Dio stesso, che per questo ha generato nel mondo mediante Din (perciò detto anche Pàchad, Paura) la guerra, sia tra gli esseri creati che dentro di loro, affinché in essa si santifichino, superando se stessi nella lotta e realizzandosi così come autentico Israele.

Mosè dunque vince la propria fatica, tiene le mani alzate verso il cielo, e la sua invocazione è tramite tra Dio e la sua propria umanità. In mano ha la verga miracolosa, segno dell’alleanza che dissolve i vincoli e distrugge le potenze di questo mondo, e nella stanchezza della lotta lo reggono la parola divina che prorompe dal suo stesso intimo e lo spirito divino che lo inonda dall’Infinito.

E almeno in qualche misura, pure noi possiamo imitarlo, confidando nell’Ignoto e abbandonando in silenzio al cielo la mano destra della misericordia e la mano sinistra del giudizio, e con esse il nostro cuore.

Sorgiamo dunque oggi stesso dalla notte del nostro offuscamento, dalla stanchezza dei nostri gesti, delle nostre parole e dei nostri pensieri usuali, e fisicamente e spiritualmente protendiamo le braccia verso il trono divino.

Come verga sacra innalziamo quell’invocazione che proviene dalla nostalgia della nostra potestà generativa, della nostra interiorità e della nostra mente che non trovano negli oggetti di questo mondo il proprio vero compimento. Per corona siano le dieci sefiròth delle dita, tese nel vuoto come simbolo delle nostre speranze incompiute, e nome divino quello pronunciato con le lettere di fuoco bianco del cuore.

Sentiremo forse scendere una meraviglia, un balsamo che scioglie i gusci della mente, dà fuoco al nostro attaccamento al passato e dirige i nostri occhi verso le segrete profondità di un giorno a venire che già è presente di là dai giorni di questo mondo.

 

La posizione di Elia

"Elia si recò alla cima del Carmelo e si prostrò a terra e fece appoggiare la faccia tra le proprie ginocchia" (1 Re, 18, 42).

"Un altro fatto riguardo a R. Chaninà ben Dosà: Egli andò a insegnare la Legge nella scuola di R. Yochanàn ben Zakkày; il figlio di quest’ultimo si ammalò; allora questi gli disse: Chaninà, figlio mio, invoca per noi la misericordia divina, affinché resti in vita. L’altro chinò la testa fra le ginocchia e invocò la misericordia divina ed egli guarì" (Talmùd, Berakhòth 34b).

Questa posizione è la stessa degli yoredé merkavà, ovvero di quei mequbbalìm "che discendono al carro", su tale carro innalzandosi poi attraverso i cieli in virtù delle potenze del santo Nome.

Perché discendono e non ascendono?

Perché si ritraggono in se stessi e, isolati dal mondo esterno, scendono nel centro della propria terra interiore, ovvero nel proprio cuore, dove cercano ed attendono l’apparizione della merkavà, del carro cioè che porta al trono divino la loro invocazione e con essa la loro propria anima. E perché prostrandosi a terra nella posizione di Elia fanno scendere con sé il Fondamento del mondo (Yesòd colàm) nel centro del Regno (Malkhùth), allo stesso modo che il loro sesso viene allora portato, aderendo al terreno, allo stesso livello dei piedi, così significando che si vuol ricomporre la frattura tra l’esperienza ordinaria e la generazione spirituale.

Tale nuova configurazione dovrebbe in effetti considerarsi come un ripristino di quella originaria, essendo con essa l’esperienza terrena riportata dalla dualità simboleggiata dai piedi all’unione simboleggiata dal sesso, la Femmina di sotto ricongiunta al Maschio di sopra, la Giustizia (Tzèdeq) ristabilita sul Fondamento (Yesòd) del Giusto (Tzaddìq).

Se questo è l'intento, le dieci sefiròth infernali della sitrà ’achrà (contraffazione e prigionia delle dieci sefiròth vere e proprie) vengono disgregate dall’invocazione, mentre le luci chiuse in esse sono liberate dai gusci (qelippòth) che le imprigionano e riconfigurate dall’azione della Maestà (Hod) e della Gloria (Nètzach), le cui operazioni nel mondo (cioè in Malkhùth) non possono essere riconosciute e quindi manifestarsi nell’umana consapevolezza se non tramite il Giusto (Tzaddìq).

Notiamo però che la posizione di Elia non è fisicamente agevole da assumere, e mette in tensione la schiena, per cui può provocare disagio. Non è fatta dunque per chi ricerca una sorta di comodità interiore, di tranquillità immunizzante; è invece una posizione di passione, di intima guerra, magari d’amore, decisamente ascetica (in questo senso è stata ripresa anche dai monaci cristiani orientali), in cui non ha rilievo il benessere del corpo. E anche se vi sono alcuni che per questo la sconsigliano, è però a mio avviso interessante capire, indipendentemente dal fatto che la si possa assumere o meno, cosa proprio tale aspetto ci suggerisca.

La sua posizione è per Elia anzitutto isolamento. Assumendo tale disposizione fisica e psichica, Elia si isola dal mondo, rinuncia a tutti gli aspetti di esso che non siano legati al particolare intento (kawwanà) con cui invoca.

Tutti gli aspetti significa davvero tutti, inclusi quelli che lo coinvolgono attualmente in quanto essere corporeo e psichico. Egli rinuncia nella sua invocazione a tutto ciò che di sé non è invocazione, vuol essere una freccia lanciata verso il trono di Dio: "carro di fuoco e cavalli di fuoco" (rekhev-’ésh wesùse ’ésh) dice il 2° Libro dei Re (2, 11), e si può intendere che la sua preghiera è il carro su cui egli salirà, guidato dai cavalli della sua kawwanà.

Questo carro, quando "ascese Elia in un turbine nei cieli" (wayyàcal ’Eliyyàhu basecarà hashshamàyim, 2 Re 2, 11), si interpose tra lui ed Eliseo, a significare che sul carro della sua nascita celeste non vi era posto per altri passeggeri. Il suo io (il mantello che gli era caduto di dosso) e i suoi attaccamenti terreni (simboleggiati da Eliseo) furono per lui persi nel turbine, affinché nulla ne sussistesse schermando davanti al trono la kawwanà.

Ma Elia è anche colui che, fuggiasco, dapprima desiderò di morire e poi dovette comunque camminare "quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di ’Elohìm, il Chorév" (1 Re, 19, 8).

Questo ci induce a ricordare che, come Elia, gli asceti di ogni tradizione hanno sempre saputo per diretta esperienza che la scomodità fisica e psichica talvolta agevola o risulta addirittura indispensabile per le operazioni dello spirito, impedendoci di identificare queste ultime con le varie manifestazioni di benessere corporee od emotive. Le operazioni dello spirito infatti si distinguono (o non si distinguono) nella stessa misura tanto negli stati di dolore che in quelli di piacere.

Taluni peraltro mancarono di sobrietà, facendo di questa constatazione la base di un vero e proprio sistema di automortificazione, per il quale i moderni con una certa ragione ostentano disprezzo. Se infatti l’arte è quella di gareggiare per vedere chi soffre di più, non val nulla. Ma anche a credere, come è spesso abitudine oggi, che le cose siano lisce, e facile spiritualizzarsi, o che esista, e chiara, una tecnica sicura per farlo, una procedura adatta anche ai pigri e a coloro che non vogliono impegnarvi molto tempo, e che si avrà il tempo di perfezionare tutto, il grosso e le minuzie, in modo da eliminare tutte le scorie e ritrovarsi perfettamente felici, ce ne vuole di credulità.

Non abbiamo tutto questo tempo. E d’altra parte senza amore non siamo nulla. Qualsiasi pratica o rituale dunque che si sostituisca al nostro amore, o a cui ci leghiamo per godere di una sorta di autorappresentazione in cui fingiamo di avere già ciò che in realtà ancora cerchiamo, ci fa solo perdere tempo.

I gradini della scala invero non ci sono noti prima che vi saliamo, e la meta neanche vagamente si può immaginarla. E infine nessuno ci assicura nulla.

Ma d'altro canto la vita di tanti meditanti dal dorso ben eretto, dal respiro ben controllato, in cosa differisce dalla vita ordinaria? Eguale fatica, eguale impegno per ottenere qualcosa d’immaginario, pena per raggiungere un obiettivo secondario come l'apprendimento di qualche formula o il perfezionamento di una tecnica, mentre la mente si fermerebbe da sé nella presenza di Dio, se davvero nella nostra stanza interiore albergassimo l’amore. L’amore infatti non è in sé altro, mai, che la stessa presenza di Dio.

Chi abbia dormito con una donna amata, o un uomo amato, o un bambino piccolo, conosce quel resistere alla propria comodità, al proprio piacere, per non disturbare l’altro, quel non dormire per lasciar dormire, o quel risveglio anticipato che consente all’altro di godere ancora dei piaceri del sonno.

Chi invece non ama più, ha regolato tutto, tutto è per lui chiaro, equo, sistematico. Dorme le ore che deve, ogni suo gesto è inteso a promuovere il suo proprio benessere. In pratica l’altro è uscito dalla sua mente (di-menticato) e dal suo cuore (s-cordato). E poiché è divenuto così arido, anche se prega o medita, non lo farà perché si renda conto di ciò che ha perso, ma solo per sentirsi bene, per digerire bene, per dormire bene.

Chi cerca davvero la santa Shekhinà, non ha tempo né desiderio per altro e non gode del proprio fisico e psichico benessere così tanto da farglielo prendere come obiettivo primario. Anzi, riconosce come talvolta una certa limitata sofferenza lenisca la sua nostalgia, nella malattia del corpo e della mente isolando e rendendo meno offuscato e più costante il ricordo dell’amore lontano.

Chi d'altra parte sopravvaluta il proprio benessere psicofisico, sopravvaluta sempre anche la propria mente ordinaria. Non vedendo che se stesso, crede di ridurre l’infinito entro le proprie mura, si illude di esserne o divenirne depositario, quasi che lo spirito non avesse altri luoghi ove spirare, altri intenti dai suoi, quasi che insomma Dio non fosse mai stato altro che una rappresentazione teatrale di quegli stessi geni ed eredità familiari che determinano le sue modalità automatiche di pensiero.

Se però capita che in lui si risvegli l'intento sacro, allora la posizione di Elia si manifesterà nonostante tutto, distruggendo con inattese gioie e sofferenze le illusorie pretese della sua mente. Egli, finalmente cosciente, solo e mortale di fronte al Solo immortale, potrà scoprire nel nulla del proprio io il presente silenzio dell'Ignoto, e la quasi insensibile brezza della sua parola.

 

Il maestro celato

Non c’è fede entro la nostra mente, se non la sostiene l’intento sacro.

Le parole degli ipocriti di questo mondo prima danno nome di dio alla follia e poi sostengono dibattiti sul fatto che tale follia esista o meno. Dottori d’ogni razza, sapienti della sitrà ’achrà, ci insidiano con stolte parole, chiamano col nome d’amore le proprie complesse, sterili finzioni.

È difficile rendersene conto; se tu stesso non ami, sei di fatto un loro complice, e crederai di amare mentre non farai che mentire.

Ma per chi ama davvero, non c’è bisogno d’altro. Qabbalà è far entrare in sé l’amore.

E infatti insegna la gimàtriyya che l’amore, ’ahavà (’HBH), è il mio vero padre, ’avì (’BY), poiché tredici è il numero di ambedue i termini.

’Elohé ’avì, il Dio di mio padre, è dunque il Dio che si manifesta in ’ahavà, nell’amore, e noi dobbiamo solo distinguere tra il tempo in cui è in noi pienamente manifesto e quello in cui parzialmente si cela.

Ed è per quest’ultimo che servono lo studio e l’apprendimento, purché però ci si mantenga in contatto con il maestro celato.

Invochiamolo dunque in noi quando una qualsiasi affermazione, nel corso di tale studio, richiede il nostro consenso, evitando di rispondere finché esso non si sia manifestato.

E quando si sarà manifestato, sapremo subito se quell’affermazione conduce a lui o ce ne fa allontanare. E non sarà tanto il significato a farci decidere quanto il gusto spirituale, perché la parola è nèfesh di chi la parla, e il suo fuoco è rùach di chi l’ha messa nel mondo.

Scopriremo allora che la maggior parte delle parole sullo spirito sono escrementi delle qelippòth mediante cui la sitrà ’achrà cerca la contaminazione del nome di Dio.

Ma scopriremo anche che in tali escrementi, come in tutte le follie di questo mondo, è presente una segreta luce che esige la nostra compassione e la nostra iniziativa, e che la nostra stessa consapevolezza ci è stata data solo per virtù d’amore, affinché, mentre liberiamo la luce presente in noi, possiamo altresì contribuire alla liberazione di quella che giace prigioniera nelle anime dei nostri simili.

Kol hanneshamà tehallél Yah

 

   


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