I principali stati mentali negativi
L'ignoranza-ottusità mentale
Il desiderio-attaccamento
L'odio-avversione
L'orgoglio-arroganza
La gelosia-invidia
Il nostro rapporto con gli stati mentali negativi
La consapevolezza
La tecnica di auto-osservazione
Il momento presente
Non reazione, ma equanimità
Accettazione e comprensione
La natura della realtà
Il distacco
La pacificazione mentale
Il superamento del dualismo
La trasformazione in saggezza
Antidoti al desiderio-attaccamento
La rinuncia
Il metodo del conquistare
La vacuità di esistenza intrinseca
La morte
L'impermanenza
La sofferenza
Le apparenti distinzioni tra gli esseri
Il dhyânibuddha Amitâbha
La pazienza
Scegliere con saggezza
Sprecare i propri meriti
Considerare i nostri problemi come aiuti spirituali
Invertire i ruoli
Il dhyânibuddha Akshobya
Antidoti all'ignoranza-ottusità
La preziosità della vita umana
La chiarezza della mente
L'amore
Il corpo di luce
La purificazione
La catena dell'originazione interdipendente
Il dhyânibuddha Vairochana
Antidoti all'orgoglio-arroganza
I nostri errori
L'uguaglianza
Il dhyânibuddha Ratnasambhava
Antidoti alla gelosia-invidia
Forse la persona che invidiamo è un bodhisattva
Forse la persona che invidiamo è più infelice di noi
La gioia simpatetica
Il dhyânibuddha Amoghasiddhi
PASSI SCELTI
I PRINCIPALI STATI MENTALI NEGATIVI
Secondo il buddhismo tutte le nostre azioni, sia positive sia negative, si distinguono in fisiche, verbali e mentali a seconda se sono compiute col corpo, con la parola o con il pensiero. In questo lavoro, in cui ci interessano solo quelle negative, possiamo considerare come esempio di azioni fisiche il furto o l'uccisione, di azioni verbali l'ingiuria, di azioni mentali la malevolenza o la bramosia.
Ognuna di queste azioni ha una sua radice che consiste in un difetto mentale o stato mentale negativo. Di queste emozioni perturbatrici, le principali sono l'ignoranza-ottusità mentale, l'attaccamento-desiderio, l'odio-avversione, l'orgoglio-arroganza e la gelosia-invidia. Nelle pagine seguenti indicheremo alcuni metodi, generali e specifici, che portano al loro superamento.
Tutti questi difetti, pur non essendo cattivi di per sé, sono illusioni e concetti distorti che:
a) danno un quadro alterato della realtà (ad esempio l'attaccamento distorce la nostra ottica delle cose, sfalsa la percezione e sopravvaluta le qualità di una persona o di un oggetto; vedendolo meraviglioso e piacevole in sé perdiamo di vista la sua vera natura e non vediamo la realtà com'è; la mente che prova tale sentimento è eccitata e piena di aspettative irreali);
b) sono di conseguenza modi sbagliati di reagire alle situazioni;
c) portano all'infelicità (ad esempio, le conseguenze dell'attaccamento non sono la pace e la soddisfazione, ma il desiderio di avere sempre di più della stessa cosa oppure la sofferenza quando la perdiamo; le conseguenze della collera, inoltre, possono essere anche fisiche, come l'infarto).
È nel nostro stesso interesse superare gli stati mentali negativi. A chi non è capitato, nella vita di tutti i giorni, di venire insultato, magari ingiustamente? E se la nostra reazione è del tutto istintiva, come di solito avviene, ci abbandoniamo all'impulso e perdiamo qualsiasi autocontrollo: in quel momento ci identifichiamo in quell'insulto, non vediamo altro che quello, ne siamo coinvolti totalmente. Scatta così una reazione automatica e immediata: dalle cattive parole passeremo alle offese vere e proprie, e forse alle percosse. Il risultato può essere una querela o un ricovero all'ospedale, conseguenze negative che certamente tutti vorremmo evitare.
Ecco perché per cambiare lo stato delle cose dovremmo cominciare da noi stessi, senza pretendere che siano gli altri a fare il primo passo. Se cambiamo noi cambierà anche tutto ciò che ci circonda, perché da noi emanerà un'energia positiva che influenzerà in bene il nostro ambiente: talora basta un sorriso per predisporre gli animi al meglio. L'ambiente è come un organismo unitario di cui tutti facciamo parte e in cui tutti siamo reciprocamente collegati. Cambiando diverremo un esempio per gli altri, che ci potranno imitare.
L'ignoranza-ottusità mentale
Il difetto fondamentale, da cui derivano tutti gli altri, è l'ignoranza-ottusità: alla radice dei difetti mentali sta soprattutto l'ignoranza quale concezione errata dell'io
Ignoranza non significa qui “mancanza di cultura", ma il fatto di non conoscere la vera natura della realtà, pensando erroneamente che l'essenza del samsåra non sia dolorosa, impermanente e insostanziale. L'ultimo dei tre aspetti ora considerati consiste nel ritenere la nostra persona, gli altri esseri, le cose e i fenomeni come indipendenti, autonomi ed esistenti separatamente gli uni dagli altri, mentre in realtà sono interdipendenti, transitori e relativi. Soprattutto il fatto di considerare la nostra persona come un'entità intrinsecamente esistente, separata dal resto, comporta la conseguenza che si arrivi a pensare in termini di “io"e di “tu", di “mio" e di “tuo", cosicché diventiamo attaccati a chi e a ciò che aumenta il nostro piacere o la nostra sicurezza, proviamo avversione per chi la disturba o la minaccia, e ignoriamo chi né ci aiuta né ci danneggia. In base a questa falsa nozione di esistenza intrinseca, che attribuiamo a tutti i fenomeni, dividiamo e classifichiamo ogni cosa o persona del mondo esterno in “amico", “nemico" o “indifferente", a seconda dei nostri sentimenti nei suoi confronti e pensiamo che queste categorie esistano veramente e oggettivamente. Il mondo sensoriale che ci raffiguriamo è il prodotto di tali proiezioni errate.
L'uomo, per mezzo dei sensi, entra in contatto con gli oggetti che lo circondano: forme e colori, suoni, odori, gusti, eccetera; da questo contatto scaturisce una sensazione che nella persona comune mette in moto un meccanismo reattivo di desiderio, avversione o indifferenza a seconda se sia piacevole, spiacevole o neutra. Il modo ordinario di reagire di fronte alle sensazioni si riduce per lo più al desiderio o all'avversione. L'essere umano, nel momento in cui viene alla luce, ha già in sé la predisposizione a provare attrazione per gli stimoli piacevoli e repulsione per quelli sgraditi, frutto del karma accumulato nelle vite precedenti.
Dualismo, dunque. Esso si verifica quando separiamo l'esperienza in due campi, come se considerassimo il fuoco e il calore due fenomeni separati. Pretendendo che la percezione e il percepito siano indipendenti, perdiamo la “conoscenza immediata, intuitiva e diretta dell'oggetto" e ci ritroviamo con una “conoscenza circa l'oggetto". La presenza immediata all'esperienza è la nostra condizione naturale e congenita; l'intelletto invece ha un effetto appannante e distorcente perché ci allontana dall'esperienza diretta, come quando giudichiamo buona, cattiva o indifferente la percezione sperimentata.
Normalmente ci rapportiamo a ogni cosa in termini di categorie: la classifichiamo ed etichettiamo collegandola alle altre e adattandola al nostro modello precostituito. Arriviamo a interpretare il mondo secondo l'esperienza precedente: oggetti ed eventi assumono significato se riferiti ad altri oggetti o eventi che crediamo di capire. E ciò perché abbiamo bisogno di sentirci sicuri nel mondo.
Ma tale sistema d'interpretazione preordinato non si adatta al nostro mondo, che non è statico: non ci sono regole valide per sempre perché ogni situazione è spontanea, fresca e nuova. Perché allora pretendiamo di incasellare l'esperienza? Per capire la vita a ogni livello non occorre passare i fenomeni al vaglio del nostro discernimento.
Il nostro errore dipende dal fatto che vogliamo avere la sicurezza e la garanzia di essere individui separati, distinti, solidi, permanenti e immutabili. In realtà, nulla ha simili qualità perché tutto è per natura impermanente. Invece, normalmente sentiamo il bisogno di valutare l'esperienza secondo uno schema di punti fissi di riferimento; ma la ricerca di questi ultimi non è il metodo giusto, perché i fenomeni della nostra percezione, dopo una momentanea conferma, ci condannerebbero per tutta la vita a dover sostituire incessantemente i punti di riferimento. La continua ricerca di nuovi punti e la verifica dei vecchi ci condurrebbe alla nevrosi. Se, ad esempio, un tempo si poteva essere orgogliosi di possedere una radio, in seguito è arrivata la TV in bianco e nero, oggi quella a colori, e domani vi sarà quella “via cavo"; oppure un partner viene sostituito da un altro che ci sembra migliore, e così via.
Nel tentativo di fissare punti di riferimento ci rapportiamo e reagiamo ai fenomeni in tre modi, cioè con attrazione-desiderio, con repulsione-odio o con indifferenza:
a) ciò che sembra dare fondamento alle finzioni di solidità, separazione, permanenza e immutabilità ci attrae;
b) ciò che sembra minacciare tali finzioni, ci suscita avversione;
c) ciò che né le avvalora né le minaccia, ci lascia indifferenti e insensibili.
Questa è la vera ignoranza, l'ignoranza che deliberatamente ignora: ottusità, torpore, confusione mentale, pigrizia e indolenza, depressione e introversione. È il sentirsi desolati, depressi e vuoti anziché sentire una ricca e viva potenzialità e una penetrante apertura mentale. È il voler restare isolati e ignorare volutamente le situazioni.
La depressione è uno stato mentale d'oppressione, ottusità e infelicità provocato da un modo di pensare errato che esagera gli aspetti negativi della nostra personalità o di una situazione. Infatti, se non riusciamo ad accettare o a risolvere le difficoltà e i problemi della vita, li ingigantiamo rendendoli sproporzionati e proviamo dispiacere e avvilimento per noi stessi al centro di una vicenda tanto triste o frustrante.
La stupidità ci rende aggressivi verso tutto ciò che sa di nuovo, e sospettosi verso quanto non collima con le nostre abitudini mentali e di comportamento. A volte ci rende incapaci di cogliere gli stimoli che ci provengono dall'esterno, cosicché spesso provoca una reazione che si focalizza in modo selettivo e unilaterale su un solo aspetto ignorando tutto il resto, contrariamente a quella che è una consapevolezza panoramica “a 360 gradi" o una penetrante e viva apertura mentale.
La stupidità assume spesso una dimensione collettiva sotto forma di consuetudini, tradizioni e formalismi (ad esempio, l'obbligo del frac in certe occasioni mondane).
Il cieco dogmatismo, che spesso esercitiamo nel campo della religione o della morale, è sempre il risultato della stupidità-ignoranza, mescolata ad altre emozioni negative tra cui soprattutto la gelosia e l'orgoglio, e a volte l'attaccamento. Quando ci sentiamo troppo sicuri delle nostre idee, quando ci irritiamo facilmente in una discussione o quando ci rinfacciano apertamente di essere troppo poco flessibili, dovremmo imparare a essere molto critici verso noi stessi.
Certo, è difficile esser consapevoli della stupidità, perché ci priva proprio dell'unico strumento che ci potrebbe liberare: il buon funzionamento della mente. È un circolo vizioso vero e proprio. Una persona intelligente sa di essere ignorante in tante cose, e di conseguenza è sempre pronta a imparare dagli altri o, se non altro, si dimostrerà tollerante.
L'opposto dell'ignoranza è la saggezza, che è la comprensione diretta e profonda del vero modo di essere di ogni cosa.
Il desiderio-attaccamento
Il desiderio è un sentimento teso a possedere ciò che ci manca e che pensiamo ci procuri piacere o vantaggio. In realtà, desiderio e attaccamento non sono sinonimi: il secondo deriva dal primo. In altre parole: il desiderio per qualcosa ci porta ad attaccarci a essa e questo attaccarci non può che condurci alla sofferenza, in quanto noi, come l'oggetto del nostro attaccamento, siamo soggetti al cambiamento, ma non lo vogliamo riconoscere. Vorremmo fermare e congelare il mutamento, ma non è possibile.
Il desiderio può assumere la connotazione della cupidigia, della brama e dell'avidità: la prima è un desiderio violento e sfrenato rivolto alle cose materiali, mentre le altre due sono un desiderio ardente e intenso che diventa smodato nel caso dell'avidità.
L'attaccamento-desiderio è una sensazione di povertà: pensiamo di essere poco, per cui abbiamo bisogno di accrescerci. Ci sentiamo privi di qualcosa di cui abbiamo bisogno: non sentendoci completi aspettiamo dagli altri le qualità che non troviamo in noi, ma il risultato è un comportamento viziato da insicurezza e possessività. Spinti dalla sensazione di mancanza e di bisogno, inseguiamo i desideri sensoriali, la ricchezza o il potere, desideriamo di essere amati, invidiati o temuti.
La causa del nostro bisogno di possedere, e di essere posseduti, è il senso d'isolamento, di separazione, di sentirci soli al mondo, che cerchiamo di eliminare attraverso l'unione con l'oggetto del desiderio. Viviamo in funzione dell'imminente possesso come quando, consegnato il denaro alla cassa, accarezziamo esultanti l'auto nuova o il disco appena uscito.
Analogamente siamo possessivi nel rapportarci agli altri, cerchiamo una relazione di supremazia che non è corretta perché usiamo gli altri per annullare la nostra solitudine e il nostro isolamento, senza un interesse sincero per una vera comunicazione reciproca. Vogliamo piacere a qualunque costo a tutti: trovando un nuovo amico gli facciamo visita troppo spesso, ingombrandogli la vita con la nostra presenza invadente e rovinando la gioia dell'accoglienza. Chiediamo troppo agli altri e, anche se talora siamo generosi, non si tratta di vero altruismo perché è in realtà il tentativo di comperarne l'amicizia per non essere soli.
Altre volte, per superare il disagio e la desolazione interiori ci aggrappiamo al dolore come masochisti e lo alimentiamo con fantasia, usando tutte le risorse dell'immaginazione per commiserarci e rafforzare la nostra identità: sentirsi morire è pur sempre un segno d'essere vivi. Così, se il nostro partner ci ha lasciati per un'altra persona, aumentiamo il dolore della separazione tormentandoci al pensiero di ciò che potrebbero fare insieme.
Poiché non tolleriamo nessuna distanza tra noi e l'oggetto del desiderio, il pressante bisogno di possedere non ci lascia spazio per apprezzarlo, per godere delle qualità di ciò che accade “qui e ora". Ne siamo impossibilitati dall'attaccamento che impedisce alle nostre facoltà discriminatorie qualsiasi prospettiva e possibilità di funzionare. Una simile situazione ci induce a strafare e a tenere un comportamento eccessivo: ci ubriachiamo, facciamo tardi la sera, andiamo a troppe feste.
La causa principale dell'attaccamento è una concezione errata che risiede nella nostra mente. Grazie a essa, quando ci si presenta un oggetto attraente si inizia a vederne tutti i lati positivi e si attiva un processo di attaccamento, laddove sarebbe un ottimo antidoto riflettere anche sui suoi aspetti negativi.
Quando siamo presi nella rete del desiderio per un oggetto, e ci identifichiamo con questo, ci sarà paura e ansia, ci preoccuperemo della sua eventuale perdita. Questo ci fa dimenticare che tutte le cose sono transitorie: cambiano, si trasformano e scompaiono. Perciò sono impermanenti anche le tendenze che sperimentiamo nella mente, alle quali è vano aggrapparci.
Il tentativo di cercare all'esterno un oggetto che paradossalmente ci dia la pace interiore è la causa di tutti i nostri problemi. Sentendoci incompleti, insicuri e irrealizzati, cerchiamo al di fuori di noi qualcosa o qualcuno che ci faccia sentire felici: i nostri desideri hanno come scopo la felicità o il piacere, che cerchiamo negli oggetti esterni. Poiché la felicità deriva dal contatto con gli oggetti del desiderio, cerchiamo di possedere l'oggetto (cosa o persona) che riteniamo più adatto a soddisfare il nostro desiderio.
Se tale tentativo non riesce perché l'oggetto rimane fuori della nostra portata, saremo frustrati. Ma alla stessa conclusione si arriva anche se, viceversa, finiamo per avere ciò che desideravamo. Anche se il desiderio è stato in grado di condurci a una felicità momentanea, la cosa o la persona ottenuta non potrà mai corrispondere alle aspettative di cui l'avevamo investita. Ciò che siamo riusciti ad avere e ciò che speravamo di ottenere si rivelano due cose diverse, perché scopriamo di possedere non la soluzione permanente, perfetta e definitiva del nostro problema, ma qualcosa che è come noi imperfetta, incompleta e impermanente. Presto o tardi ci sentiremo traditi nelle nostre aspettative, e proveremo sconforto e amarezza. In una parola, ci sentiremo delusi.
Normalmente attribuiremo la colpa della nostra infelicità all'oggetto che abbiamo ottenuto: lo scartiamo e ci mettiamo alla ricerca di un nuovo oggetto, proiettando su quest'ultimo speranze e aspettative altrettanto esagerate e irrealistiche di quelle che avevamo nutrito in precedenza. Così si continua a cambiare una cosa con un'altra, una persona con un'altra, senza mai raggiungere la felicità desiderata: è un po' come voler raggiungere l'orizzonte che si sposta sempre più in là a ogni nostro movimento nella sua direzione. Il risultato è una situazione improntata all'insicurezza e alla possessività.
Non c'è niente di sbagliato nel provare gioia e piacere: l'errore sta nell'aggrapparvisi trasformandoli da una fonte di felicità a una fonte di dolore e frustrazione. La vera causa della sofferenza non è il possesso in sé, ma l'attaccamento a ciò che si possiede. Ci può essere più attaccamento in un mendicante per le sue povere cose che non in un magnate del petrolio per i propri miliardi. Poiché il problema nasce dall'attaccamento e non dai piaceri in quanto tali, se riusciremo a liberarci da questo atteggiamento abituale arriveremo anche a gioire senza provare le sofferenze che accompagnano la nostra pressante ricerca del piacere. È il nostro pregiudizio che trasforma l'oggetto desiderato, sopravvalutandolo e rivestendolo di qualità che in realtà non possiede, così da avere una visione distorta della sua vera natura. Tipico è il caso dell'amore. Si dice infatti che “l'amore è cieco", perché una persona innamorata è paralizzata nelle sue facoltà di giudizio, non vede l'oggetto del suo amore qual è in realtà, ma lo modifica nella sua immaginazione idealizzandolo e trasfigurandolo, cioè rivestendolo inconsciamente, in base al proprio desiderio, di caratteristiche e qualità che l'altra persona non ha.
Finché continueremo a ignorare la natura impermanente e priva di sé delle cose, e persisteremo nel desiderarle e nell'attaccarci a esse, la frustrazione sarà il risultato ineluttabile.
L'attaccamento può essere rivolto:
a) agli oggetti dei sensi;
b) alle opinioni o concezioni.
Il primo tipo di attaccamento, l'attaccamento ai piaceri sensoriali (ivi compresi quelli di natura erotica), è quella propensione naturale alla soddisfazione dei propri sensi che in parte è un istinto naturale di autodifesa, ma che diventa vero e proprio attaccamento quando, ignorandone la natura, si intensifica sempre più fino a trasformarsi in un collante vischioso che ci impedisce di agire spontaneamente e gratuitamente. Come si è detto, non è il possedere che crea problemi, ma l'aggrapparsi a ciò che si possiede e che spesso, nella nostra società consumistica, diventa lo scopo centrale della vita. Un tipo di avidità è infatti l'ossessione del consumismo: dobbiamo consumare per confermare la nostra esistenza, quando consumiamo ci sentiamo qualcuno, e quindi sicuri. Poi, ottenuto ciò che volevamo, lo abbandoniamo in fretta. È il tipico atteggiamento “usa e getta" che si manifesta purtroppo anche nei riguardi delle persone.
Così l'attaccamento nel campo della sessualità, che viene chiamato lussuria o libidine, si esprime nella ricerca affannosa e sfrenata di piacere e nell'irrequietezza fisica e mentale quando il nostro desiderio non può venire soddisfatto. Oltre a renderci schiavi dei nostri istinti, ci toglie la capacità di rispettare la libertà e le esigenze degli altri.
Nella sfera del cibo l'attaccamento si chiama golosità e ingordigia, e ci porta a un uso smodato e vorace di alimenti e bevande. Va peraltro osservato che non sono necessariamente indici di golosità né il normale piacere della tavola né la propensione per un cibo preferito: ci si può considerare golosi solo se non si sa rinunciare di buon animo a un cibo dannoso alla nostra salute, se non si è capaci di condividerlo con altri o se si fa dipendere la nostra serenità e buon umore da alimenti o bevande.
L'attaccamento alle nostre opinioni, che può essere frutto dell'orgoglio o di una rigidità preconcetta, è per alcuni, specie per gli intellettuali e i politici, molto più difficile da abbandonare che non quello ai beni fisici. Questo tipo di attaccamento è ancora peggiore quando ha per oggetto opinioni errate; ad esempio quella che nega la legge del karma, cioè che sostiene non esservi alcun frutto per le azioni compiute, per cui non vi sarebbe bisogno di seguire alcuna legge morale; oppure quella che sostiene la teoria nichilista secondo cui non c'è nulla al di là dei processi fisici e mentali, con la conseguenza che al momento della morte non rimane più nulla dell'individuo, nessun frutto karmico delle azioni compiute.
Alcuni tipi di attaccamento sono molto allettanti, altri più subdoli perché sembrano più rispettabili e giusti, come potrebbe essere il bisogno e la soddisfazione di obbedire e sottomettersi a un credo o un ordine religioso. Oppure ci vantiamo di seguire “buone teorie" come l'altruismo, la tolleranza o la lotta all'inquinamento. Ma il problema per una persona saggia non è ciò a cui ci si attacca (per cui se è buona va bene, e se è cattiva è male), bensì il fatto che ci sia o meno l'inclinazione all'attaccamento. Per il buddhismo, persino l'attaccamento alla pratica spirituale o agli stati mentali sottili raggiunti durante la meditazione va superato. È questo atteggiamento mentale che deve essere trasformato: la condizione di saggezza e di verità consiste proprio nell'abbandono dell'illusione di poter possedere alcunché, compresa l'idea di bene o qualsiasi altro valore supremo, che comporta pur sempre un residuo di dualismo.
A volte l'attaccamento e l'amore, o la compassione, possono apparire quasi identici. Quando, ad esempio, ci sembra di provare amore per il partner, se si analizza questo sentimento a livello più profondo si scopre talora che si tratta in realtà di attaccamento. Per sapere dunque di che si tratta, dovremmo osservare i risultati del nostro comportamento: se stando col compagno e prendendocene cura ci ritroviamo più confusi e turbati, allora si tratta di attaccamento; se invece non si perde il controllo né la serenità, si tratta di amore o di compassione. In questo secondo caso la relazione interpersonale è improntata al donarci spontaneamente all'altro, con sincera comunicazione e comunione, da cui deriva una gioia completa; mentre nell'ipotesi dell'attaccamento, dove s'impongono il piacere, il bisogno di affermare se stessi e il desiderio di sicurezza, si riscontra il conflitto del possesso, della paura e della gelosia: in una parola, è presente la sofferenza. Se dunque ci sentiamo infelici o ansiosi, o se siamo portati al facile disprezzo o alla critica di cose o persone, vuol dire che non siamo interiormente liberi e stiamo soffrendo per il nostro attaccamento.
L'odio-avversione
In generale, si potrebbe definire questo stato d'animo come un'emozione di inimicizia verso ciò che pensiamo ci possa far soffrire e da cui quindi cerchiamo di separarci.
In senso più preciso, l'avversione è una viva ostilità verso cose e persone, mentre l'odio è una totale e intensa avversione per una persona col desiderio che le accada del male.
Sono molte, e alcune molto sottili, le forme che racchiudono il germe dell'avversione. Le principali sono le seguenti:
a) l'antipatia, che è l'avversione istintiva per una persona, anche senza un motivo apparente;
b) l'animosità, che è il sentimento, meno forte dell'odio, di un animo esacerbato che si manifesta con parole e atti malevoli;
c) l'ira, che è un sentimento improvviso e violento che si scaglia contro qualcuno o qualcosa;
d) la rabbia, che è l'ira quando diventa brutale;
e) l'irritazione, che è un'ira momentanea e passeggera, non troppo intensa;
f) la collera, che può essere più o meno forte dell'ira, ma più durevole;
g) l'aggressività, che è la reazione ostile a una minaccia al nostro potere, con l'intento di aumentarlo a scapito di quello della persona aggredita;
h) la malevolenza, che è il provar gusto per il male altrui.
Vi sono poi forme più complesse, quali il rancore, che è un sentimento di odio o risentimento inveterato e tenuto nascosto, e lo sdegno, che è un sentimento di riprovazione, indignazione e ira provocato da quelle persone o da quelle cose che ci sembrano immeritevoli o intollerabili.
Detto questo per precisione terminologica, nelle pagine che seguono useremo le dizioni “avversione"o “odio"nel loro significato più ampio e corrente, comprensivo anche delle altre forme.
A ben guardare, l'avversione è, in fondo, un tipo di desiderio: si tratta infatti di “non desiderare" una determinata cosa o di “desiderare che quella cosa non sia". L'avversione per ciò che non piace è, in ultima analisi, un “desiderio da evitare" ciò che è percepito e valutato come spiacevole: è il desiderio di non soffrire.
L'avversione può trovare la sua causa nella mancata realizzazione di un desiderio, nella paura di non essere amati, in un'umiliazione, in una mortificazione o in una frustrazione.
Odio e avversione sono sintomi di debolezza e paura: infatti ci arrabbiamo solo se percepiamo che l'altra persona è più forte di noi, sia che si tratti di forza emotiva, intellettuale o morale.
L'avversione nasce come reazione di paura alle minacce: nel momento in cui ci rendiamo conto che qualcuno potrebbe approfittare di noi ci sentiamo vulnerabili e fragili; quest'ultimo sentimento ci fa immaginare che ci sia qualcosa, fuori di noi, da attaccare e vincere, per cui sorgono intolleranza e aggressività, verbale o fisica, nella speranza che tale dimostrazione di forza dissuada l'altro dal maltrattarci o dall'umiliarci. Pensiamo che, dimostrando debolezza, ci esporremmo ad esempio allo scherno e, piuttosto di perdere la faccia, crediamo che l'attacco e la rappresaglia siano la migliore difesa.
Quando l'odio si trasforma in un atteggiamento permanente, acceca le nostre facoltà mentali e ci rende capaci di ogni ingiustizia. L'odio può trasformarsi in uno stato patologico: in tal caso, prima ancora di riversarsi sull'oggetto della nostra avversione, è un'arma rivolta contro noi stessi, capace di infliggerci ferite letali. Più è forte la nostra aggressività, più l'ambiente circostante risponde con uguale ostilità e più il processo diventa autodistruttivo.
Si dice che l'odio è l'opposto dell'amore, ma che gli è simile perché spesso l'amore offeso si trasforma in avversione. Le cose non stanno esattamente così: l'amore vero, disinteressato, che non cerca la gratificazione delle proprie attese, non si muterà mai in avversione; può esser soggetto a questo cambiamento solo l'amore imperfetto, quello che può consistere anche in un piacevole rapporto temporaneamente gratificante, ma che si fonda sulla possessività e l'egocentrismo.
Anche un oggetto inanimato può far sorgere la collera: il televisore o l'auto che non funzionano bene o che si rompono proprio nel momento in cui ne abbiamo bisogno. In tal caso dovremmo cercare di comprendere che né il televisore né l'automobile hanno intenzione di farci innervosire o arrabbiare, e anzi è perfettamente ragionevole che non funzionino se c'è qualcosa di rotto, ed è altrettanto logico che qualcosa si rompa magari dopo anni di buon funzionamento. Per cui, la nostra collera è infondata.
L'odio è il primo sentimento negativo che dovremmo cambiare, per vari motivi:
a) impoverisce le nostre energie psichiche, specialmente quando assume le forme più violente;
b) ci impedisce di aprirci all'influsso benefico delle forze apportatrici di calma, benessere, pace, gioia, felicità e amore, e di coltivarle;
c) ci rende incapaci di ampliare i nostri orizzonti mentali perché, quando siamo sotto la sua tensione, la mente rimane focalizzata sull'oggetto della nostra avversione.
Un grande aiuto consiste nello sviluppare in noi stessi, attraverso la meditazione, il sentimento opposto all'avversione, cioè l'amore. Comunque, come vedremo, il primo passo rimane quello di essere consapevoli di noi stessi e delle nostre emozioni, osservandoci con costanza, pazienza e comprensione. Infatti,"chi non s'impegna a conoscere se stesso è incapace di guarire, né altri lo possono fare per lui.
L'orgoglio-arroganza
L'orgoglio è quel difetto mentale in cui ci si considera superiori agli altri per via della sopravvalutazione dei propri meriti e qualità.
Anche questa emozione perturbatrice assume varie forme e aspetti più o meno gravi, che hanno però tutti, quale comune denominatore, una esagerata considerazione e stima di sé:
a) la superbia è l'orgoglio manifestato in modo sprezzante, un'ostentazione di altera superiorità accompagnata da disprezzo per gli altri: mentre l'orgoglioso è pieno di sé e si compiace di esserlo, ne è soddisfatto, il superbo non si appaga di questa sua condizione ma tende ad affermarla sempre di più;
b) la presunzione è invece l'orgoglio manifestato in maniera sfacciata;
c) l'arroganza è un atteggiamento più offensivo della presunzione, perché è insolente;
d) l'alterigia, o altezzosità, è una presunzione ostentata in modo odioso;
e) la protervia è arroganza mista a ostinazione e sfrontatezza;
f) la tracotanza è superbia unita alla prepotenza.
Figure per un certo verso affini alle precedenti, ma prive di quel requisito comune, sono l'ostentazione, cioè il mostrare apertamente le proprie qualità e proprietà in modo da attirare l'attenzione altrui, e l'ambizione, cioè la brama sfrenata di successo, potere e onori. All'ambizione appartiene anche la vanagloria, che è ambizione desiderosa solo della stima altrui.
L'orgoglio nasce dunque dall'eccessivo amore di sé, dalla troppa fiducia in se stessi, dall'esagerata stima dei propri meriti. L'orgoglioso è una persona preoccupata all'eccesso del suo piccolo io: vive sotto la continua tensione di fare qualche brutta figura ed è preoccupato di emergere sugli altri. In realtà è un timido che vuol mettersi in mostra per senso di superiorità.
Per l'orgoglioso è difficile realizzare un rapporto profondo con le cose e le persone: la costante preoccupazione di sé gli impedisce di essere semplice, libero, sereno e disinvolto, doti che gli permetterebbero di abbandonarsi totalmente all'altro. Per questo è “uno che vive a metà", ma forse questa battuta, a ben guardare, è applicabile anche a chi è sotto l'influsso degli altri difetti mentali.
Esiste anche una forma positiva d'orgoglio che è l'"amor proprio": il puntiglioso desiderio, spesso giustificato, dell'approvazione altrui per i propri atti e del riconoscimento dei propri meriti. Sentirsi felici e fieri di sé per l'esito positivo di un impegno è una naturale reazione di soddisfazione per un'impresa ben riuscita, ma se si soffre a causa della disattenzione altrui, la nostra soddisfazione non è del tutto pura e trasparente.
Spesso l'orgoglio si riveste di naturalezza, semplicità, comprensione e affabilità. Questa forma d'orgoglio è particolarmente sottile e insidiosa. In questo caso la “cartina di tornasole", la riprova per verificare l'autenticità dei nostri sentimenti e comportamenti è la sofferenza: quando essa viene a turbare la nostra mente, significa che le nostre intenzioni profonde non erano del tutto disinteressate e altruiste, ma contaminate dall'orgoglio.
L'orgoglio, come tutte le altre emozioni negative, trae origine dal senso d'inferiorità e dall'insicurezza, dalla mancanza di fiducia in se stessi. Questo senso d'inferiorità proviene dai tempi in cui eravamo bambini, quando ci sentivamo così piccoli e insicuri di fronte al mondo incomprensibile, e quindi minaccioso, degli adulti, quando l'ambiente circostante ci sembrava così immenso o complicato e noi eravamo privi dell'amore e dell'affetto che ci avrebbe aiutato a superare le avversità quotidiane di quei tempi. Se paragoniamo la situazione di ieri alla nostra posizione odierna, ci accorgiamo che l'insicurezza e la sensazione di essere piccoli ci affligge ancora: in questo senso siamo rimasti bambini e non siamo ancora cresciuti. Allora la nostra reazione è quella di inventare ciò che non c'è, di darci delle arie: un modo errato e dannoso di esercitare la fiducia in se stessi.
Se il nostro lavoro e le nostre aspirazioni ci procurano un senso di soddisfazione e di appagamento, nonché la sensazione di aver dato ciò che potevamo, non è orgoglio. Ma se dobbiamo ricordare a noi stessi e agli altri le nostre aspirazioni per sentirci più sicuri, allora le stiamo usando per alimentare il nostro orgoglio. Per coloro il cui orgoglio è concentrato sul lavoro, quest'ultimo diventa la cosa più importante e tutto il resto passa in second'ordine. Per costoro si profila una pessima vecchiaia, perché quando non saranno più in grado di lavorare si troveranno senza più uno scopo nella vita, soli e abbandonati; più avranno investito le loro energie nell'orgoglio, meno avrà un significato la loro esistenza.
Frutto dell'orgoglio può essere anche l'attaccamento alle proprie opinioni. Spesso ci fissiamo sulle nostre opinioni e ci facciamo vanto di non cambiarle, orgogliosi che siano così tenaci. Lo scambiamo per forza di carattere, mentre in realtà da questa fissità di vedute traspare una rigidità preconcetta, una mancanza di comprensione e di sicurezza interiore. Tenersi fermi a un'idea è come una nave che rimane ancorata nel porto, al di fuori dei pericoli dei flutti; e spesso, oltre che sicuro, è anche più comodo che affrontare i cambiamenti imposti dal tempo e dal mutare delle circostanze.
Una persona orgogliosa delle proprie opinioni è spesso ipocrita e altezzosa: le sue idee fisse rendono impossibile qualunque stimolo spontaneo, qualsiasi discorso intelligente e aperto, mentre le relazioni interpersonali restano emozionalmente fredde, sicché non può instaurarsi una vera comprensione reciproca.
L'orgoglio si estende anche al proprio nome, specie se si appartiene a una famiglia illustre, ai titoli o alla posizione sociale, e siamo lusingati quando possiamo far colpo su qualcuno (ricordiamo in proposito la famosa frase “Lei non sa chi sono io"). Alcuni sono orgogliosi anche del proprio aspetto fisico, forse ottenuto dopo sforzi e sacrifici grazie al body building. Se proviamo un senso di disagio o imbarazzo perché siamo troppo grassi o troppo magri, troppo giovani o troppo vecchi, anche questo dipende dal nostro orgoglio. Così pure se abbiamo un difetto fisico e ce ne ricordiamo continuamente, con complessi di inferiorità. Questa tensione tra quel che siamo e quello che vorremmo essere è una manifestazione di orgoglio che ci procurerà tutta una serie di complessi che alla fine ci impediranno di essere serenamente noi stessi e che sono molto più sgradevoli di quanto non sia il difetto fisico in sé.
La gelosia-invidia
La gelosia non è un sentimento che s'insinua soltanto nei rapporti tra marito e moglie, fidanzati o amici. Siamo gelosi verso chi possiede beni materiali superiori ai nostri o quando un altro ha un oggetto o una qualità che noi desideriamo molto. La si può quindi definire come una fastidiosa intolleranza verso chiunque si frapponga al possesso o al raggiungimento di ciò che si considera egoisticamente di nostra spettanza. Questo fastidio scaturisce dal nostro senso d'inferiorità, dalla paura o dalla sfiducia in noi stessi.
Tale difetto costituisce una negazione dell'amore. È stato detto che "la gelosia è più amor proprio che amore", perché l'amore vero non conosce gelosia. Si può capire se si ama davvero qualcuno, o se si è semplicemente possessivi e gelosi, osservando i frutti che maturano in noi. L'amore ha come effetto la gioia, la serenità, il dialogo, una tranquilla e paziente attesa, ma se invece ci si irrigidisce nei confronti del partner, se si diventa duri, scontrosi, facili al sospetto e alla critica, chiusi alla comprensione e al perdono, allora si può anche credere di amare, ma in realtà si è soltanto gelosi.
L'invidia è la forma aggressiva della gelosia: è l'odio del bene e della felicità altrui. Più precisamente:
a) la gelosia riguarda ciò che si ha e non si vorrebbe perdere: è un sentimento di ansietà di chi teme di perdere ciò che possiede;
b) l'invidia riguarda ciò che non si ha e si vorrebbe avere: è un sentimento di ostilità verso chi possiede ciò che vorremmo e ne è felice, possesso che consideriamo una lesione al nostro io.
Vi sono poi forme più complesse, quali l'astio, che è il malanimo causato da invidia e sospetto, e il livore, che consiste nell'invidia divenuta astiosa e maligna.
L'invidia-gelosia può derivare dalla paura, che è un turbamento ansioso di fronte a un pericolo vero o immaginario. Ci sentiamo minacciati da macchinazioni e complotti rivolti a nostro danno: un insulto al nostro partito politico, il venire contraddetti, sono situazioni vissute come offese personali e attacchi contro di noi.
Tali minacce ci costringono a stare sempre sul piede di guerra, pronti a intervenire: siamo sempre all'erta, anche nei riguardi dei nostri cari, per cercare di mantenere ciò che abbiamo o che crediamo di essere. Così ci dedichiamo a complesse analisi in cui sezioniamo ogni parola, sfumatura o gesto altrui come se nascondesse un'intenzione ostile. Siamo diffidenti, il sospetto è il dubbio che ci fa immaginare il male negli altri, per cui viviamo nella paura di esser colti alla sprovvista. Trovandoci in un continuo stato di tensione e agitazione, è logico che diventiamo molto irritabili.
Ma quelle minacce che ci facevano paura, in realtà non sono che l'apparente sicurezza degli altri, la naturalezza e la fiducia con cui si muovono e agiscono, e che noi invidiamo proprio perché ne siamo privi.
Dovremmo invece avere fiducia, non dovremmo preoccuparci di scatenare offensive o di consolidare le nostre difese, perché in realtà nessuno ci sta attaccando. Se ci rendiamo conto che il “nemico" altri non è che una persona come noi e che l'ambiente in cui viviamo è più benevolo di quanto pensassimo, non avremmo più niente da tenere sotto controllo e nessun “io" da proteggere.
Oltre alle meditazioni già esposte sulla vacuità di esistenza intrinseca, sulla morte e le apparenti distinzioni fra gli esseri, per eliminare l'odio-avversione è utile meditare sui seguenti temi.
La pazienza
Sappiamo per esperienza che la collera ci fa solo del male, rendendo la mente infelice e sempre più agitata. Inoltre, abituandoci all'ira, creiamo impronte mentali per cui, quando incontriamo circostanze simili, la collera sorgerà di nuovo e più facilmente. La logica stessa ci dice che dovremmo coltivare la qualità opposta: la benevolenza, cioè desiderare che possano ottenere bene e felicità sia i nostri cari sia tutti gli esseri senzienti, o almeno la pazienza.
La pazienza consiste nel mantenere l'equanimità contro le ingiurie e le sfortune o quando si viene danneggiati dagli altri. È la capacità di sopportare con fiducia, compassione e comprensione della vacuità, tutte le sofferenze e le avversità senza adirarci. La mancanza di sopportazione può riguardare qualsiasi oggetto: una persona, una cosa, il tempo, una situazione. Se siamo impazienti ci arrabbiamo facilmente, perdendo in un istante i meriti acquisiti in migliaia di eoni.
Per poter essere pazienti dovremmo considerare che dipende solo dal nostro atteggiamento considerare un nemico, e quindi meritevole della nostra avversione, chi ci fa del male. Abbiamo infatti visto che la distinzione tra persone amiche, nemiche e indifferenti non ha un valore assoluto, non esiste una persona che sia nemica sempre e dovunque e per chiunque.
La vera causa del comportamento sgradevole o dannoso dell'altro nei nostri confronti dipende dal fatto che non sa essere migliore di così, perché è accecato dai veleni mentali dell'ignoranza, dell'invidia, e così via; non può controllare se stesso ed è il primo a essere infelice.
Chi ci fa del male, agisce così perché è legato a certe condizioni e circostanze. Se una persona irata ci colpisce con un bastone, è il bastone che ci provoca dolore; e come il bastone è maneggiato da quell'individuo, così egli è dominato dalla collera: si deve quindi odiare la collera e non l'individuo. Se una persona è epilettica e urla e aggredisce il medico che la sta curando, il medico non se la prende con il malato perché la causa è la malattia. Analogamente, dovremmo vedere tutte le mancanze degli esseri alla luce dei loro difetti mentali e non come se tali esseri fossero cattivi; tutta la colpa dei loro comportamenti va imputata ai difetti da cui gli esseri sono posseduti, ma non alle persone.
Inoltre, quando più tardi maturerà il suo karma negativo, la persona che ci danneggia dovrà soffrirne molto, e quindi col suo comportamento attuale sta costruendo qualcosa di cattivo per se stessa, cosa molto triste che deve perciò farci provare una grande compassione nei suoi confronti. Se reagissimo con collera, aumenteremmo solo la sua sofferenza.
Chi ci fa del male dovrebbe venire considerato come l'amico migliore, a cui dobbiamo esser grati perché ci purifica del nostro karma negativo, ci sta dando l'opportunità di conoscere la nostra capacità di controllo della mente e ci aiuta a realizzare il Dharma mediante la virtù della pazienza. Le contrarietà vanno viste come medicine che, seppur di gusto sgradevole, si prendono volentieri per potersi ristabilire, cioè per alleviare la malattia mentale dell'illusione. Ecco quindi una valida ragione per esser buoni con quella persona e sopportarla benevolmente. Anzi, sotto questo aspetto, il suo è un aiuto pari a quello del Buddha, perché se è vero che il Buddha ci offre generosamente i suoi insegnamenti, se non ci fossero quelle occasioni non li potremmo mettere in pratica.
Dobbiamo ricordare che, avendo avuto un numero infinito di reincarnazioni da un tempo senza inizio, una volta o l'altra la persona che ci fa arrabbiare è stata anche nostra madre, e ora è come una madre che, avendo perso la ragione, non riconosce il figlio e lo maltratta. Se nostra madre fosse impazzita, non cercheremmo certamente di nuocerle ancora di più reagendo a nostra volta, ma la ameremmo ugualmente per ricambiare la sua gentilezza di un tempo; non sarebbe giusto volersi vendicare di chi ci ha generato, allevato e curato con tanto amore.
In base alla legge del karma, il male che stiamo soffrendo ora è stato causato da noi stessi in questa o in un'altra vita. Perciò, poiché la situazione attuale risale a una colpa nostra, sarebbe ingiusto rendere la pariglia a chi ci fa del male. D'altronde, una volta ricevuto il male, vendicarsi non serve a cancellare il danno subìto; anzi, ricevere il male ci può dare l'occasione di praticare la virtù della pazienza e quindi l'opportunità di trasformare questa condizione avversa in una situazione favorevole.
Scegliere con saggezza
Un altro approccio consiste nell'esercitare la saggezza: nel caso di una risposta collerica, valutiamo i vantaggi e gli svantaggi che tale reazione comporta e quali sono le scelte coerentemente attuabili. Se si vede che la situazione può essere modificata, ci si deve risolvere a intervenire subito, senza indugiare in sterili reazioni emotive; se invece non vi è possibilità d'intervento, si deve riconoscere che è inutile intestardirsi in una reazione negativa che comporta solo un dispendio di energie non finalizzate a uno scopo.
In altre parole, si dovrebbe avere la forza di accettare con serenità le cose che non possono essere cambiate; avere il coraggio di cambiare le cose che possono e devono essere cambiate; e avere la saggezza per distinguere le une dalle altre.
Sprecare i propri meriti
Pensiamo che l'ira è un'energia negativa così potente che ne basta un solo istante per distruggere il karma positivo accumulato con tanto sforzo nel corso di moltissime vite. Quindi non vale certo la pena di sprecare così scioccamente i nostri meriti.
Considerare i nostri problemi come aiuti spirituali
L'ira-avversione può nascere dalle situazioni più disparate: dall'autobus affollato alla suocera impertinente, dalle pretese della vecchia madre ammalata al figlio che si droga, dall'errore dell'ufficio delle tasse alla scortesia del negoziante.
Per impedire che a tali situazioni avverse si reagisca con ira, si dovrebbe evitare anzitutto l'errore di vedere nella nostra vita solo problemi. Se abbiamo l'abitudine di considerare come problema ogni piccolo fastidio che non si accorda col nostro egoismo e ci irritiamo, la nostra mente sarà sempre oberata dall'insoddisfazione: la mente esagera le situazioni e la vita si colma di risentimento, depressione, paranoia e crisi nervose. Ogni cosa ci sembra nemica: non comprendendo che l'errore è nella nostra mente abituata a questo modo di pensare, siamo convinti che i problemi derivino dall'esterno, dall'ambiente o dagli altri. E così ci arrabbiamo o ci deprimiamo. Dovremmo invece cercare di ridimensionare il nostro giudizio sulla situazione: ricevere un piccolo sgarbo non è certo un problema serio. Meno consideriamo le difficoltà come causa di sofferenza e più le faremo diventare sopportabili.
Ma, al di là di questo comportamento, la cosa più importante è cambiare prospettiva nei riguardi delle situazioni avverse, trasformandole nel sentiero spirituale. Ciò significa fare un uso intelligente di ogni sofferenza o problema che si presenta, trasformandoli in occasioni per migliorare la mente e progredire nella pratica verso l'illuminazione. I nostri problemi, a ben guardare, possono diventare degli aiuti; quindi, ogni volta che incontriamo ostacoli o circostanze avverse, impariamo a considerarli come situazioni positive e desiderabili. Se ci morde un serpente, per quanto sia doloroso incidere la carne nel punto in cui è entrato il veleno, non lo consideriamo un male, ma sappiamo che è un intervento benefico perché ci salva la vita. I problemi sono una condizione indispensabile alla pratica spirituale.
Smettendo di provare avversione per le avversità e, al contrario, cercando di apprezzarle, la mente sarà più felice. Anche se gli ostacoli non svaniranno, non potranno più interferire con il nostro stato mentale né danneggiarlo.
Occorre sforzarsi di percepire solo il lato positivo dei problemi. La positività o la negatività di qualsiasi situazione dipende solo dal modo in cui la nostra mente la percepisce, dalla nostra interpretazione della realtà. Possiamo scegliere se vivere un'esperienza come “piacevole"o come un "problema". La felicità e la sofferenza dipendono soltanto dalla mente, non provengono dall'esterno o dagli altri. Ad esempio, possiamo soffrire lasciandoci prendere dalla collera, oppure possiamo essere felici praticando la gentilezza, la compassione e la pazienza. La sofferenza e la felicità sono il risultato dell'atteggiamento della nostra mente: non esistono la felicità o l'infelicità di per se stesse. Entrambe sono una manifestazione della vacuità. Ogni fenomeno è vuoto di esistenza intrinseca, per cui non vale la pena provare attaccamento o arrabbiarsi. La sofferenza di per sé non esiste: è un'etichetta che la mente attribuisce a una sensazione e proietta su una certa situazione. Come etichettiamo una sensazione, così ci appare. È il nostro pensiero illusorio che interpreta qualunque esperienza in modo positivo o negativo. Quando, sciando, portiamo gli occhiali gialli, la neve non ci appare più del suo colore naturale ma ci sembra gialla.
Ogni volta che sorge un problema si dovrebbe, invece di respingerlo con avversione, accettarlo con gioia pensando che è un'occasione positiva per:
a) purificare il nostro karma negativo;
b) esercitare la mente alla rinuncia al samsâra.
Infatti i problemi sono insegnamenti, perché ci rivelano come la natura del samsâra sia costituita unicamente di sofferenza. Non solo la nostra, che sperimentiamo in questo momento di difficoltà e quella che ci aspetta in futuro per aver creato altro karma negativo, ma anche quella, spesso ben più grave e intensa, di tante altre persone e degli esseri che si trovano nei regni inferiori del samsâra.
c) praticare le virtù.
I problemi ci avvertono che, se non vogliamo soffrire, dobbiamo abbandonare le azioni non positive e cercare di accumulare meriti praticando le virtù, prime fra tutte la gentilezza e la compassione.
d) generare bodhicitta e distruggere l'egoismo.
Qualsiasi difficoltà non deriva da cause esterne, ma è prodotta dal karma negativo accumulato in passato a causa dell'egoismo. Quanto più forte è il nostro egoismo, tanto più intensi sono la collera, la gelosia, l'attaccamento e l'insoddisfazione, di modo che nella vita quotidiana incontriamo difficoltà sempre maggiori, una dopo l'altra.
Dobbiamo quindi cercare di utilizzare i problemi per distruggere l'egoismo, ossia per rinunciare a noi stessi e prenderci cura degli altri. Il desiderio di ottenere l'illuminazione per il bene di tutti gli esseri (bodhicitta) presuppone che sia stato cancellato ogni atteggiamento egoistico.
Invertire i ruoli
Quando sorge avversione per una persona, proviamo a invertire i ruoli, ossia visualizziamo e consideriamo noi stessi come il nostro nemico e questo come noi stessi. Ora siamo noi l'oggetto dell'odio altrui: come ci sentiamo in questa nuova condizione? Non è certo piacevole essere odiati, magari senza esserne la causa volontaria. Questo scambio di posizione ci aiuterà a vedere le cose da un punto di vista diverso dal nostro e favorirà il sorgere della pazienza e della benevolenza.
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