Karim Kobrâ | ||
Voglio
vedere Dio in faccia Frammenti di un incontro estatico a cura di Gianni De Martino |
Introduzione di Gianni De Martino
Il vino
Il vento
L’amore
La taverna blu
I corpi di luce
Auguriamoci che soffi il vento
Postfazione di Pietro Olmi
PASSI SCELTI
Hadji Karim Kobrâ, scrittore e filosofo dell’Ordine sufico dei Kadria, fondato da Mulay el Kader el Gilali nel XIII secolo, nasce nel 1950 o 1951 a Fes, in un austero palazzo di una delle più antiche strade di quella che fu la prima città imperiale del Marocco. Ancor oggi integra nel suo labirintico tessuto architettonico, Rue el Bali occupa il fondo e le pendici della valle del fiume Fes, dove sono concentrati tutti i monumenti di una civiltà sensuale e scintillante, tanto diversa dalla nostra. Una suggestione all’avventura, al viaggio, al recupero di tradizioni e di storie perdute, che fu pienamente accolta e fatta propria da Karim Kobrâ.
Cosmopolita per sangue, per vocazione e per curiosità, apparteneva a una famiglia che racchiudeva in sé le tradizioni più diverse. Antenati berberi si mescolavano alle immagini di un padre iraniano e di una nonna francese, il cui grande ritratto forse doveva dominare lo studio di Karim. Il richiamo dell’Europa, dove si recherà per breve tempo durante gli anni universitari, irrompe costantemente nella vicenda dei Kobrâ. Nei primi difficili anni del dopoguerra, infatti, suo padre, Farid Kobrâ, aveva coraggiosamente intrapreso viaggi in Inghilterra e in Francia, aprendo a Parigi una boutique che proponeva il più raffinato artigianato di Fes.
Di Karim sappiamo che le sue attitudini letterarie si manifestarono con grande facilità, e che i professori del liceo francese Victor Hugo lo introdussero alla cultura moderna e gli fecero conoscere il vigore verbale di autori come Rimbaud e Lautréamont, e non solo il classico Victor Hugo o le tragedie di Racine. Ma è sulla strada di un Oriente che in qualche modo già gli apparteneva, che Karim Kobrâ intraprenderà i suoi viaggi decisivi, e trascorrerà in Medioriente lunghi periodi di studi. Laggiù, in occasione di percorsi di solitaria avventura, liberi, trascorsi senza orari o tappe prestabilite, incontrerà i suoi Fratelli dell’Ordine Kadria, adepti di una forma «colta» di misticismo, e alcuni Maestri fra i più vicini all’originario sufismo.
Poiché finora di Karim Kobrâ esistevano pochissime tracce, tutte misteriose e allettanti, alcuni critici hanno, in tempi recenti, avanzato l’ipotesi che Voglio vedere Dio in faccia sia un apocrifo, e anzi che Karim Kobrâ non sia mai esistito - come se la sua ricerca e la sua giovane vita non fossero state altro che il passaggio di un’ombra sulla polvere roteante dei lontani e psichedelici anni Sessanta.
Ora sappiamo invece che la sua infanzia trascorse in un ambiente rigorosamente fedele alla tradizione sufica, di cui egli colse tutto il senso e l’islamica raffinatezza. E che d’altra parte, attraverso l’incontro con in primi hippies occidentali in viaggio in Marocco e sulla via dell’India negli anni Sessanta, egli entrò in contatto con i contestatori della nostra civiltà e della tecnocrazia in nome dell’avvento dell’Età dell’Acquario, o forse di un radicale ritorno del Paleolitico: una specie di futuro primordiale.
All’epoca delle mie ricerche sulla figura e l’opera di Karim Kobrâ, io non sapevo che se n’era già occupato uno studioso belga. Il teosofo Philippe d’Arschot, che l’incontrò e trascorse con Karim Kobrâ l’estate del 1966 a Essauira, sulla costa atlantica del Marocco, lo ricorda felice soltanto davanti alle stelle. Lo dice lui stesso, in un vecchio documentario, gli occhi grigi dietro le spesse lenti, le labbra carnose: “Un taccuino sulle ginocchia nude, Karim scriveva su fogli di carta bagnati. Il vento che veniva da un mare alto e color dell’acciaio che qui i berberi chiamano Taghart, l’Atlantico, accarezzava il suo viso, i suoi boccoli neri; gli insetti cantavano. Un burnus bianco copriva il suo dolce petto, i suoi piedi erano nudi nei sandali. Aveva diciassette o forse diciotto anni, era vergine; io lo osservavo da lontano, quell’adolescente che adorava l’Eterno, diceva di essere il suo sacerdote all’ascolto delle nuove avventure dello spirito”.
Nel testo di Karim Kobrâ confluiscono poesia, erotismo e misticismo. Egli scrive durante la breve stagione fiorita dei lunghi capelli, e la sua ricerca cercò di non conformarsi a nulla, se non alla sete di autenticità che ognuno, ognuna, sentiva dentro di sé, e a cui si dedicava con impudente innocenza e una passione che oggi (nell’epoca del grande freddo e l’incubo delle future notti caste) è imbarazzante ricordare. Di questo movimento psichedelico, planetario, che è potuto sembrare anacronistico, confuso, se non un po’ folle a uno spirito cartesiano, noi oggi non abbiamo altro ricordo che quello dei fiori, di qualche grido d’amore universale e un ritornello dei Beatles. Abbiamo voluto dimenticare che si trattava di uno sconvolgente movimento mistico dove, nel tentativo di spalancare le porte della percezione, si alleavano gli psichedelici e il nome di Dio.
Voglio vedere Dio in faccia ha conosciuto due edizioni successive. La prima, pubblicata per conto d’autore negli anni 1970-1972 con la firma di Abdallah Vidal, si presentava sotto forma di tre opuscoli, intitolati Il Vino, il Vento, l’Amore, che furono indirizzati a pochi amici e a qualche personalità del mondo arabo-islamico delle lettere e delle arti. La seconda, che riprendeva in un volume il testo dei tre fascicoli, ma sensibilmente ridotto in rapporto alla precedente, e con il titolo Oro che canta nel mezzo del silenzio, apparve nelle edizioni Lumen Numen di Bruxelles nel 1975, anno della misteriosa scomparsa dell’autore in viaggio in Iran, da cui contava di raggiungere la Mecca per compiervi un secondo pellegrinaggio.
Da allora, è come se lo stesso Karim Kobrâ abbia voluto cancellare le tracce del suo viaggio terreno, affinché venisse ricordato solo il canto a gloria dell’Amico. “La nostra Mecca è il volto dell’Amato, e la preghiera non ha fine quando si è visto l’Amico”. Cosa importa chi parla? Ciò che conta è che la sua poesia ci sia giunta intatta.
Karim Kobrâ ha incominciato a scrivere Voglio vedere Dio in faccia proprio su quella spiaggia di Essauira nell’estate del 1966, alcuni mesi dopo un primo testo, La taverna blu, composto in gran parte al registratore. Ogni verso, da me tradotto secondo la versione francese di Philippe d’Arschot, è stato in seguito confrontato al testo originale, o perlomeno a quello che si ritiene tale, grazie all’aiuto prezioso di Boujema Bennani, conservatore della biblioteca della Confraternita (zauia) Kadria di Fes, poi ripreso e redatto in maniera definitiva per la presente edizione italiana. Non ho aggiunto al testo che le note ai primi capitoli, non ritenendomi qualificato per spingermi oltre in tale compito.
Mi limiterò quindi a riferire, come indispensabile introduzione allo sfondo dottrinale dell’esperienza sufi a cui il testo si riferisce, che per i dervisci l’uomo è quell’essere inquieto che nulla appaga, se non quell’orizzonte che in realtà tutto avvolge e in tutto è presente. Qui il sufismo raggiunge una fioritura straordinaria di espressioni e forme, segno di una ricca esperienza spirituale. Attraverso il tema dell’amore (hubb) assoluto per il Dio che attrae, viene sviluppato il tema della conoscenza (ma’rifa, gnosi), propria di alcuni eletti, non frutto della ragione umana, ma di una comunicazione diretta con il divino. Tale comunicazione non avviene nella storia o nel tempo astratto del computo del calendario, ma nel segreto del cuore e nel silenzio: là dove l’uomo, al culmine di una «disperata speranza», incontra l’Assoluto e con Lui celebra le sue vere nozze. Tale unione esige una trasformazione del sufi, un suo morire a se stesso, anzi un annientamento del suo sé (fana) per sussistere in modo nuovo in Dio solo (baqa).
A lungo si discuterà sulla natura dell’unione della coscienza individuale con la coscienza del cosmos nell’oblio di sé, unione con questo inconoscibile che chiamiamo Dio. Ma essa trova fondamento nella fede islamica e viene sottolineata dalla tradizione sufica come esclusione assoluta di ogni alterità. L’affermazione «non c’è dio se non dio (la ilaha ila Allah)» diventa «non c’è esistente se non il Dio», come se il resto non si muovesse che nella Sua ombra: per cui dal monoteismo puro al monismo assoluto il passo sembra breve. “Perché” come con garbata e lucida ironia scrive Karim Kobrâ, “da ogni parte l’universale magia del cosmo ci compenetra, ma essa è un po’ limitata dal nostro cervellino”.
In pratica, il lavoro consiste nel procedere in accordo con le straordinarie stravaganze del desiderio, sottraendogli sia l’energia sia l’orientamento nel tempo. Negli esseri profani il desiderio può essere circoscritto o bloccato, per cause interne o esterne, e sempre rinascere, anche se distorto. A volte vi si può rinunciare, per impossibilità di appagamento, o proprio per la possibilità di appagamento. Il desiderio, generalmente, può confondersi con il bisogno più elementare, a cui conferisce in ogni caso una forma particolare, e può essere senza oggetto, desiderio d’infinito, di assoluto. In Karim Kobrâ, il desiderio oscilla tra «amico» e «Amico»: un impercettibile spostamento che sembra presupporre una specie di trasferimento ascensionale di energia. Viene utilizzato l’impulso erotico, perché la felicità suprema non potrebbe ottenersi senza un corpo «acceso» di amore.
Le esperienze di luce che allora si verificano, sono delle illuminazioni (ishraqat) che si levano ai limiti della percezione. Esse sorgono nell’anima allorché si aprono «gli occhi degli occhi», e si riflettono sull’abitacolo (il «tempio») corporeo. Capita allora che il sorgere di tali luci trasporti l’adepto, in modo da condurlo al Cielo, ma con un corpo che è il suo corpo sottile, non il corpo materiale; allora si congiunge con alcuni prìncipi celesti. Tali eventi richiedono la mediazione indispensabile dei sensi, con i quali però non si pongono in rapporto di causalità stretta, bensì di consonanza. E trovano conferma nell’ascesa (miraj) del Profeta trasportato in Cielo fino al «loto del Limite» dalla boraq, la cavalla alata. Nella speculazione dei grandi maestri spirituali del sufismo, in particolare del maestro andaluso Muhyi al-Din Ibn ‘Arabi, (soprannominato Sayk al-akbar), la trasformazione nell’Uomo Perfetto (insan kamil), passa attraverso l’esperienza di forme meravigliose per bellezza e splendore. Queste forme angeliche non esistono né nel pensiero né nella realtà concreta, ma in un mondo intermedio tra il mondo dell’Intelligenza e il mondo dei sensi, conosciuto come l’«ottavo clima». Qui si esperimenta la presenza di forme divine e di figure angeliche, di dimensioni altre, corpi di luce e movimenti in suspence, vale a dire puramente virtuali: non contenuti da un luogo o dipendenti da un sostrato. La terra allora si manifesta come Angelo che avvampa in ogni cespuglio e fa splendere e vibrare ogni più piccola cosa di estatico abbandono.
Dove l’esperienza visionaria sembra espandersi, intensificarsi e orientarsi verso ciò che possiede più forza, durata e splendore di ciò che banalmente accade e presto si consuma, si riflette e si dispiega la colorata vividezza della luce perfetta, che è il cuore, la rosa e il sole del mondo dell’Intelligenza, la Luce delle Luci.
Qui, per i sufi, pare risiedere stabilmente un magnifico segreto, in relazione con lo sviluppo dell’insan kamil, l’uomo perfetto, e l’evoluzione del creato. Qui, va sottolineato, i raggi mistici sono fenomeni assolutamente naturali, e non solo modeste anticipazioni dei raggi tecnologici, creatori di nuovi spazi attraverso il silicio. Basato sulla stregoneria ottica, il cyberspazio manca di un cuore caldo, di odori, di profumi e di serici contatti con amanti in carne e ossa, sostituiti da eventi che afferrano l’occhio e resi unicamente con urli irresistibili di colore. Sono molti i posti dove andare a fondo nella mutevole rete, poiché senza un ritorno al cuore naturale ogni sforzo rischia di dissiparsi in qualche insensato regno neuroelettrico, così come in un oceano infinito di metafora pura. Il limite di Karim Kobrâ è forse quello di essere monoteista e di essere segnato, dati i tempi in cui è vissuto, dai segreti della cultura psichedelica. Di tendenza occultista, ironico, intuitivo e psichedelico, fumatore d’erba ma anti high-tech, Karim Kobrâ incarna più il beat artistico, istruito e hip degli anni Sessanta, che non il nuovo ceppo visionario ad alta tecnologia, ecologista distaccato, globalista individualista, opportunista zen.
Sono tante le stratificazioni letterarie e le riprese dei temi e delle figure dei grandi eretici del sufismo radicale che si succedono nel testo di Karim Kobrâ, che è quasi impossibile ricostruire una dottrina fissa e dogmatica. Critici poco scrupolosi, come per esempio il professor Mamhud el Afiz, hanno in tempi recenti sostenuto che Karim Kobrâ fosse segretamente affiliato alla setta degli Assassini diretta da Hassan I Sabbah, il Veglio della Montagna che con grande saggezza seppe avvolgere la perla della Gnosi in leggende tenebrose, per impedire agli sprovveduti di avvicinarsi troppo al Fuoco.
Anche se vi troviamo l’essenziale del sufismo dottrinario, è della sua propria esperienza che Karim Kobrâ scrive, fase dopo fase, senza tuttavia lasciarci sperare l’accesso al più alto grado: a quell’Unione, cioè, raggiunta unicamente dal «solo verso il Solo». Bujema Bennani, di cui non ho motivo di rifiutare il racconto di Karim Kobrâ posseduto dallo Spirito e come lui stesso dice “incinto di bellezza divina” mentre componeva i suoi versi in una specie di trance ( “talvolta seduto, talvolta in piedi, a volte sdraiato su un fianco, e a volte sul dorso come un cadavere nel suo sudario, e poi improvvisamente passando in una grande disperazione di danza, di musica e di nudità assoluta”), mi ha anche raccontato che lui stesso avrebbe voluto fare un commentario, un giorno in cui chiese a Karim Kobrâ il permesso di scriverne uno su Voglio vedere Dio in faccia. “In quanti volumi?”, chiese Karim. “Due”, rispose Bennani. L’asceta sorrise. “Se avessi voluto” disse, “avrei potuto scrivere due volumi di commentario su ogni verso”.
Ogni poesia, e la poesia dei mistici anzitutto, suggerisce molto più di quanto dica. Come brillando all’orlo delle parole, una tale poesia sembra custodire quella gioia eccessiva, quella eccedenza mistica che forse è il segreto evolutivo del linguaggio. Le religioni, con parole differenti, insegnano che l’uomo è spirito e deve ritornare allo spirito. Tutto dipende dalla nostra concezione di Dio. Karim Kobrâ lo concepisce come spirito universale ed eterno, e amore infinito. Ritrovare la coscienza precisa e acuta del cosmos al cuore caldo e compassionevole di tutti gli universi, e unirsi a essa, sarebbe lo scopo ultimo di ogni manifestazione ed espressione della bellezza e della vividezza della vita. Occorre dunque collaborare alla costruzione di un universo più libero e più felice, e di noi stessi. A ognuno di cercare secondo la propria sete di vino, di vento, d’amore e dell’Eterno.
Gianni De Martino
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