PASSI SCELTI
INTRODUZIONE
Questa primavera, nella mia professione di notaio, fui chiamato da un cliente per un problema singolare. Era questi l’ultimo rappresentante di un’antica famiglia che possedeva ancora qualche ricchezza e i cui antenati avevano svolto un ruolo importante nella storia locale. Mi chiedeva di raggiungerlo in una vecchia villa al di là delle colline che fronteggiano la città, dove il fiume si arresta un attimo a formare un piccolo lago per poi proseguire.
Vi viveva con una coppia di domestici lo zio, uomo stravagante e solitario. Qualcuno lo ricordava giovane buontempone che amava belle donne e bel vivere, e vecchi amici descrivevano feste, balli e cene allegre nella villa illuminata e rumorosa. Anni prima, si raccontava, tornato da un viaggio si era rinchiuso in casa, scoraggiando ogni contatto con risposte scontrose sinché nessuno lo aveva più cercato.
Dopo il mio arrivo ci sedemmo in un comodo salottino e il mio cliente chiamò i domestici a riferire quello che era avvenuto, mi parve però con una curiosa reticenza, come per qualche fedeltà o timore.
Il racconto fu breve: all’inizio di aprile il padrone li aveva quasi cacciati, costretti a forza a una vacanza di un mese con l’imposizione di non farsi vivi prima della scadenza, per nessun motivo. Al ritorno avevano trovato villa vuota, proprietario scomparso, una lettera per loro e una per il nipote, entrambe in bella vista sul tavolo di cucina.
Il contenuto era semplice e conciso: confermava una partenza definitiva, senza indicazioni, e dava brevi istruzioni con delega al nipote per la gestione del patrimonio. Era per quest’ultima parte, evidentemente, che era stata richiesta la mia presenza.
Esaminammo la villa. Nello studio un caminetto colmo di cenere e frammenti di carta testimoniava che si erano bruciati molti documenti. Di un grosso quaderno era rimasta parte della copertina mezza consumata: era ancora possibile leggere «Diar.. d.. lab..».
Girando per casa in cerca di indizi scendemmo nel seminterrato. Qui, con mio grande stupore, stava un vasto laboratorio ben attrezzato per esperimenti di chimica e metallurgia: forni, vecchi alambicchi, pestelli e mortai di tutte le dimensioni, crogioli usati in gran quantità. Nessun materiale. Sembrava ci si fosse dati gran pena per ripulire tutto. Solo, in bella vista su un tavolo, uno splendido lingottino giallo che un orefice confermò poi essere di oro purissimo.
Una porta laterale conduceva in uno studio con pareti ricolme di libri. Sulla scrivania, legate da un nastro verde, delle lettere con un biglietto enigmatico che diceva: «Queste si possono mostrare».
Concluse le incombenze legali il giovane volle affidare a me le lettere perché le esaminassi e ne decidessi la sorte. In effetti sapeva che amavo studi esoterici, e pensava che ne potessi dare un giudizio.
Dopo una prima scorsa, fu evidente che non rappresentavano se non la minima parte di uno scambio epistolare molto più ampio, certamente più dettagliato. Era stato cancellato con cura tutto ciò che poteva indicare nome e luogo dell’interlocutore misterioso, con tutte le date.
Ero in buona amicizia con uno studioso di islamismo, ne chiesi il parere. Riporto qui il commento sintetico con cui le restituì:
Caro amico,
si tratta certamente di una documentazione notevole. Il maestro dell’Islam è molto probabilmente un sufi di scuola shi’ita. Lo dimostra certo linguaggio: per esempio «situazione» e «stato» così come sono usati nella sesta risposta corrispondono sicuramente a maqâm e a hâl, e sono termini tecnici della letteratura sufi. Mentre l’accenno all’amicizia con Dio, la walâyat, è tipica del pensiero shi’ita.
Le ritengo di grande interesse.
Perciò le ho tradotte, erano in inglese, cercando di comprendere il senso delle frasi talvolta molto oscure, e lasciandole nello stesso ordine in cui stavano, sino all’ultima brevissima comunicazione. Le ho poi sottoposte a un editore, che ha accettato di pubblicarle.
Così facendo spero di aver bene interpretato la volontà di chi me le ha inconsapevolmente affidate, dovunque si trovi ora.
Prima lettera
Caro Maestro,
da voi il silenzio, e nel silenzio la pace. Qui tutto è rumore, e nel rumore la paura. Presso di voi il frutto, qui nulla se non la vita elementare, con tutte le sue fatiche.
Che vi posso dire di più. Volevate conoscere il mio mondo e i miei problemi. Guardate un formicaio: l’attività è frenetica, furia cieca della natura che spinge a crescere, procreare, senza altro scopo che esistere.
Ascoltate un alveare: operosità continua in un ronzio ininterrotto, senza un attimo di quiete.
Mi dite che spesso siete nel deserto a meditare e studiare: immaginate un mondo senza deserti, dove la solitudine sia un dono impossibile, il silenzio un ricordo appannato e la vita un affannarsi insensato, una corsa senza punto di arrivo, fatta a spintoni e gomitate per conquistare un premio che non esiste.
Mi chiedete cosa sto cercando: userò parole non mie. Da poco è morto un Papa, e ne hanno eletto un altro. Il nuovo è un uomo dolcissimo, che non pare di questo mondo, dall’aria svagata come si trovasse per caso su una sedia un po’ ostile, un po’ estranea. Pochi giorni fa diceva che se anche siamo mescolati alla confusione e al rumore, dobbiamo affermare: “Oltre un certo punto voi non esistete per me, ed io mi ritiro in me, nel mio giardino di quiete e di delizie, unito al mio Dio, in pace”. Ricordava un facchino che aveva visto dormire tranquillo in una stazione, circondato dal baccano di treni e uomini e bagagli. Questa, ha detto, è la Grande Disciplina, da non confondere con la Piccola Disciplina che consiste solo nel seguire le regole esteriori cui tutti ci dobbiamo adattare.
Vorrei conoscere questa Grande Disciplina. Vorrei la pace di quel facchino, qualunque cosa essa sia.
Così, caro Maestro, ho scoperto l’Alchimia, di cui tanto vi ho parlato, il motivo per cui chiedo aiuto e guida.
Mi chiedete come vi sono giunto. L’ho incontrata in un libro, come capita sempre, come è inevitabile qui, in Occidente, dove i Templi non esistono più, dove i Maestri stanno silenti e nascosti, dove restano solo libri di pietra e carta per leggere di antiche sapienze.
L’ho letto, il libro di cui vi parlo, in un momento di disperazione, di rifiuto totale per questo mondo, per il suo rumore, per il suo nulla faticosissimo, per la paura che lo avvolge come una cappa di tempesta imminente. Mi sentivo come dice un filosofo che voi non conoscete, che non appartiene e non potrebbe appartenere al deserto. Mi sentivo «come una puttana che vaga in una città senza marciapiedi». A mezzo tra sofferenza e oblio, drogato dallo stesso esistere di questo rumore senza fine.
Così è incominciata la mia ricerca. Per caso. Ho letto un libro e mi sono innamorato del silenzio che vi abitava. Ho avuto l’intuizione di un luogo di pace, un ricordo, una nostalgia. Un richiamo al deserto, al secco, non arido, deserto che non ho mai conosciuto.
Ho letto, e non ho capito. Ho sentito qualcosa che si agitava, l’embrione informe, minuscolo, impreciso, di una nascita possibile. Il nucleo invisibile di una parola silenziosa, splendente.
Non so dirvi di più. Mi pare di aver capito, questo sì, che nella materia, proprio in quella fisicità che sembra orrenda, spiacevole, ignobile, proprio in quella stia in qualche modo la chiave per qualcosa che potrei chiamare il divino, se solo avessi ancora una religione.
Anche di questa mi avete chiesto. Non saprei cosa rispondervi. Noterò solo un segno. Un tempo i nostri sacerdoti officiavano guardando ad Oriente, alla vita e al suo sorgere. Oggi guardano ad Occidente, alla morte e al suo approssimarsi. Prima volgevano le spalle all’uomo e guardavano a Dio. Oggi volgono le spalle a Dio e guardano l’uomo.
Mi sembra semplice simbolo di un mondo, non morente, già morto. La convulsa attività che manifesta non proviene da eccesso di vita, ma da decomposizione cadaverica, quando nella corruzione corporea tutto si muove, vermicola, gonfia, erutta, emana.
L’anima è persa, fuggita con la vita e il respiro. Resta ancora un oscuro fervore psichico ad emettere le fetide esalazioni che i demoni amano e da cui sono abbondantemente nutriti.
Sembra un’opera alchemica in atto: corruptio unius est generatio alterius, dicevano i vecchi maestri. Dunque inutile piangere su ciò che è finito, aspettiamo con curiosità e speranza quello che verrà. In effetti la morte, qui lo abbiamo dimenticato, è un momento ineluttabile di questa manifestazione, e non è detto sia sempre un male…
Proprio qui, comunque, devo incominciare la mia ricerca, e proprio qui, in questo stato sepolcrale, occorre una guida perché i primi passi abbiano la corretta direzione. Qualche secolo fa un alchimista ha scritto:
La nostra pratica in effetti è un cammino nelle sabbie, dove ci si deve guidare con la stella del Nord, piuttosto che con le orme che vi si vedono impresse. La confusione delle tracce, che un numero quasi infinito di persone vi ha lasciato, è così grande, e vi si trovano così tanti sentieri diversi, che conducono quasi tutti in orrendi deserti, che è quasi impossibile non deviare dalla vera via, che solo i saggi favoriti dal Cielo hanno saputo fortunatamente scoprire, e riconoscere.
Tra queste sabbie, in questi deserti disperati, così diversi dai vostri, non cerco i misteri delle operazioni, gli arcani segreti dell’Arte. Cerco l’indicazione primordiale, la parola iniziale, la traccia del primo passo.
Rispettosamente.
Prima risposta
Caro studioso,
Dio dice nel suo santo Qur‘an:
Il tuo Signore trasse dai lombi dei figli di Adamo i loro discendenti e li fece testimoniare verso se stessi. “Non sono il vostro Signore?”. “Sì, l’attestiamo”, risposero. Questo perché non possiate dire il giorno della Resurrezione: “Noi non ne sapevamo nulla”. O perché non diciate: “I nostri padri prima di noi hanno accolto falsi dei. Noi siamo i loro discendenti. Ci vuoi dunque far perire per le azioni di uomini vani?” (Sura VII, 171-172, Al A‘râf, il Purgatorio).
Dio si fa conoscere per mezzo della sua parola, e ogni versetto è una manifestazione.
La parola ha il suo limite nella manifestazione, e la manifestazione è la parola che sale sino al volto di chi la pronuncia.
Dio ha posto la sua parola sui discendenti di Adamo quando erano ancora atomi. Ha detto: “Non sono il vostro Signore?” ed essi sentirono chiaramente. Perciò anche gli atomi hanno fede e pregano. I loro movimenti sono un prostrarsi in atteggiamento di umiltà, ed essi lo fanno anche quando non sono ancora corpi completi.
Questa è la fede innata, quella per cui gli atomi si muovono intimamente.
Dopo di questo, quando si formano i corpi, non esiste più sapienza ma esiste il potere. Allora la parola e la visione sono velate al di là del mondo della non visione, e i movimenti intimi degli atomi si colmano di oscurità.
Il cammino mistico si muove in senso contrario a questo. Chi è su questo cammino si purifica e rasserena per mantenere in se stesso il mondo del potere fuori dal mondo della sapienza, per scoprire la visione penetrante della sapienza e poter udire: “Non sono io il vostro Signore?”. Allora questa parola si rivela e supera nella sua unicità le fasi di oscurità con la luce della visione.
Io ho manifestato ogni cosa in modo che essa mi veli e non guidi sino a me.
Unirsi a me è la cosa più elevata che io abbia manifestato, ma l’unirsi a me è un velo.
Quando io appaio, tu non vedi nulla. La parola in alto è un limite per ciò che sta in basso, ma non c’è limite per ciò che sta in alto.
Io sono la causa dell’apparizione di ciò che si manifesta, e sono la causa per cui appare in ciò che io voglio che appaia.
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