“Smettete, itacesi, la guerra terribile,
che senza sangue possiate al più presto accordarvi”.
Così gridò Atena; e quelli verde spavento afferrò:
agli atterriti caddero l’armi di mano,
tutte a terra cadevano, al grido della dea.
Accade nell’ultimo canto dell’Odissea, quando gli dèi intervenivano ancora nel mondo degli uomini. Purtroppo hanno perso l’abitudine di visitarci per fermare le guerre.
Perché iniziare un seminario di meditazione dall’Odissea? Perché è inutile ricorrere ad archetipi orientali per illustrare il viaggio che l’uomo deve affrontare per ritrovare se stesso, il lungo viaggio verso la propria profonda umanità, esattamente come fa Odisseo che
obbediva e gioiva nel cuore.
Odisseo, che accetta la pace di Atena e ne gioisce, è un guerriero trasformato dal viaggio interiore. L’Odisseo che fa ritorno non è più quello partito vent’anni prima. Già re, marito e padre, torna a essere lo stesso re, marito e padre, ma in mezzo ci sono vent’anni, dieci di immobilità e dieci di movimento. I primi dieci anni corrispondono all’assedio di Troia: una situazione di blocco, di immobilità, simboleggiata dall’assedio. In questi dieci anni, Omero sembra offrirci una saga delle nevrosi umane: vendette, beghe, rivalità, e il grande Achille che si scatena e compie il suo dovere di eroe solo quando gli ammazzano l’amichetto…
Dieci anni di nevrosi, di meschinità, di raffigurazione dei limiti dell’uomo che culminano in modo poco onorevole: il cavallo di Troia, escogitato da Odisseo, non è una vittoria alle armi ma una truffa bella e buona.
I secondi dieci anni, che formano il materiale dell’Odissea, iniziano con la partenza verso casa dell’eroe presuntuoso, che si ritiene ricco di ingegno, con le navi cariche di bottino. Anzi, pensa, facciamo qualche sosta durante il viaggio per arraffare qualcos’altro.
È lungo il percorso che aspetta Odisseo: incontrare la ninfa Calipso e la maga Circe, scendere agli inferi, entrare nel regno dei morti e scoprirvi i propri fantasmi interiori. Sa che deve annullare se stesso. Quando il Ciclope gli chiede: “Chi sei?”, risponde: “Nessuno”. Non è solo un abile mezzuccio. Significa che io, il grande Odisseo distruttore di rocche, sono in tua balìa, di fronte a te sono «nessuno». Una seconda volta dovrà essere «nessuno», cioè cambiare nome perché non si fida, giungendo all’isola dei Feaci. Trovato nudo sulla spiaggia da Nausicaa, figlia del re dell’isola, non osa rivelare il proprio nome e si inventa una nuova identità. Non essendo più se stesso, diventa di nuovo «nessuno». Anche rientrato a Itaca, a casa propria, non può rivelare chi è, se non vuole che i Proci lo facciano subito fuori.
Il viaggio di Odisseo è segnato anche dal dolore della perdita dei compagni. Deve perdere tutti gli affetti, tutto ciò a cui è attaccato, deve annullarsi per rinascere, totalmente nuovo, a Itaca. Solo allora può accettare l’invito di Atena: “Sii uomo di pace”. Odisseo non è più l’uomo di prima, è cambiato, maturato, ha ritrovato se stesso, la sua vera identità.
Ma che cosa è cambiato? È cambiato il suo livello di coscienza. Se ci mettiamo in viaggio e seguiamo un percorso fino in fondo, se abbandoniamo noi stessi, se ci nullifichiamo, allora possiamo ritrovarci.
L’Odissea descrive un viaggio circolare, senza meta. Odisseo parte da un luogo per ritornare nello stesso luogo. Qual è allora il valore del viaggio? Che se non si parte non si può ritornare. Ogni notte Odisseo sogna di «vedere il ritorno», è consapevole del ritorno, lo gusta. Quando regnava a Itaca, prima di partire per la guerra, Odisseo non c’era veramente. Sempre impegnato in avventure di guerra e di caccia, non era mai presente. Ma, ritornato, può «vedere» il suo stesso ritorno, gioire dell’attimo presente, di ciò che c’è, della realtà, della moglie, del figlio, delle capre, dell’isola pietrosa ma «buona nutrice di uomini».
Odisseo incomincia a ricordare con affetto Itaca quando qualcosa incomincia a cambiare dentro di lui, quando perde l’interesse per la guerra, la conquista, il bottino. E a noi, che cosa interessa? Vogliamo partire per un viaggio, indubbiamente periglioso, in cui potremo morire, in cui il nostro io dovrà sicuramente morire?
Un maestro zen, Suzuki Roshi, dice che il viaggio spirituale è come un treno: se si sale bisogna aspettare la prossima fermata per scendere. Non possiamo buttarci giù dal treno in corsa. Il mezzo del nostro viaggio, della nostra personale odissea, è la meditazione. È un viaggio pieno di pericoli, di insidie, di tempeste, non qualcosa di rassicurante e tranquillizzante, non serve a far passare il mal di testa, non è un tavor o un’aspirina spirituale. Ci mettiamo lì e passa tutto? No, ci mettiamo lì e viene su tutto.
Perché? Che cos’è la meditazione? È semplicemente sedersi, immobili, presenti a tutto ciò che avviene dentro e fuori di noi, senza attaccarci a nessuna esperienza, senza giudicare, ma attenti a tutto ciò che c’è.
Più sediamo e più le cose che accadono sono cose interne: il nostro inconscio che viene a galla, i nostri polifemi, le nostre circi, le nostre nevrosi, angosce, paure. Più che far passare il mal di testa, è probabile che la meditazione lo faccia venire. Ma la meditazione ci può condurre alla meta di questo viaggio senza meta dove ci aspetta la nostra umanità più profonda, l’essenza del nostro essere. Odisseo deve soffrire perché è terribilmente orgoglioso, tremendamente pieno di sé. Deve venire spezzato, triturato. Il suo io deve infrangersi perché Odisseo rinasca. Per questo la via della meditazione è definita la via dell’assenza di io, o della morte dell’io, vale a dire la distruzione della nostra concezione di noi stessi e del mondo. È una via che costringe a camminare su un filo, senza rete sotto e senza assicurazioni.
Altre vie spirituali offrono assicurazioni: credi in un salvatore che ti salverà, fai ciò che dice il tal libro ispirato da Dio e sarai salvo. Sono concezioni dettate da ciò che viene chiamato «materialismo spirituale», da una visione infantile della spiritualità che chiede sicurezze e rifiuta di assumersi la responsabilità della vita. La via della meditazione è la via del dubbio, dell’incertezza assoluta, e quindi della libertà.
Il termine «meditazione» si presta a molte interpretazioni, dalla riflessione cristiana su un passo sacro alle tecniche delle più diverse psicoterapie. La meditazione di cui si parla in questo libro proviene da una tradizione millenaria sviluppatasi in Tibet e chiamata Dzog-chen, «grande perfezione», l’insegnamento più profondo ed esoterico del Buddhismo tibetano, ma, nello stesso tempo, il meno tibetano di tutti, perché il meno marchiato culturalmente. Chiamato Ch’an in Cina e Zen in Giappone, è un insegnamento transculturale perché «senza parole», al di là della parola, un insegnamento puro e diretto che non ha nulla a che vedere con contenitori ideologici.
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